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Giurisprudenza

Cessata materia del contendere e spese processuali: la norma abrogata produce ancora effetti

Al centro, il principio dell'efficacia delle leggi nel tempo (articolo 11 delle preleggi)

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La mancata comunicazione al giudice tributario da parte del ricorrente della cessata materia del contendere, non lede i principi di lealtà processuale e di probità ma rappresenta comunque un mancato adempimento di etica professionale, considerato che il giudice, se informato, avrebbe sicuramente deciso per l'estinzione del giudizio e, per effetto di quanto disposto dall'articolo 46, comma 3 del Dlgs n. 546 del 1992 (all'epoca non ancora dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale), per la compensazione delle spese.

L'importante principio è contenuto nella sentenza n. 124 del 4 novembre 2005, depositata il 18 novembre 2005, della Commissione tributaria regionale Puglia, sezione XV, da cui emerge la non applicabilità retroattiva della sentenza n. 274 del 2005 della Corte costituzionale.

Com'è noto, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità del terzo comma dell'articolo 46 del Dlgs 546/92 (in quanto lesivo del principio di ragionevolezza sancito dall'articolo 3 della Costituzione), nella parte in cui prevedeva che le spese di giudizio restavano a carico della parte che le aveva anticipate. In particolare, la norma precludeva ai giudici tributari di decretare la soccombenza virtuale dell'Amministrazione al pagamento delle spese.
I giudici delle leggi hanno stabilito che la compensazione ope legis delle spese, nel caso di cessazione della materia del contendere, rappresenta un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni (ad esempio, il ritiro dell'atto, nel caso dell'amministrazione, o l'acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente).

Occorre premettere che la cessata materia del contendere è prevista nel processo amministrativo (articolo 23, ultimo comma, della legge n. 1034 del 6/12/1971, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali), ma non dal codice di procedura civile. In particolare, nel giudizio amministrativo è stabilito che, se entro il termine previsto per la fissazione dell'udienza, l'Amministrazione annulla o riforma l'atto impugnato in modo conforme all'istanza del ricorrente, il Tribunale amministrativo regionale deve dare atto della cessata materia del contendere e provvedere alle spese, anche dichiarandone la compensazione ove ne ricorrano i presupposti.
Proprio l'istituto della cessata materia del contendere, che rappresenta il riflesso processuale del venire meno della ragion d'essere sostanziale della lite, introdotto innovativamente nel contenzioso tributario, ha dato vita negli ultimi tempi a un vivace dibattito in dottrina e a numerose pronunce in campo giurisprudenziale.

In base all'articolo 46 del Dlgs 31 dicembre 1992, n. 546, il giudizio si estingue nei casi di definizione delle pendenze tributarie e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere, dichiarata con decreto del presidente (reclamabile innanzi alla commissione) o con sentenza della commissione tributaria.
Il terzo comma dell'articolo in questione prevede, in particolare, che le spese del giudizio estinto a seguito della cessazione della materia del contendere restano a carico della parte che le ha anticipate, a meno che la legge non disponga diversamente. Ai fini della ripartizione delle spese giudiziali, comunque, il giudice deve accertare a quale parte occorre imputarsi la responsabilità di aver provocato il giudizio.

Può aversi estinzione del processo, quindi, a seguito di cessazione della materia del contendere, in cui possono farsi rientrare le fattispecie della definizione delle pendenze tributarie (ad esempio, il condono o la lite fiscale pendente) o nel caso in cui l'ufficio finanziario proceda al ritiro dell'atto impugnato. L'effetto estintivo opera automaticamente e la cessazione della materia del contendere ha come presupposto una dichiarazione concorde di tutte le parti del giudizio, nel caso in cui siano state effettuate proposte contrapposte e deve essere rilevata d'ufficio(1).

Nel caso in esame, il Comune notificava avvisi di liquidazione ai fini Ici, avvisi poi impugnati dal contribuente che eccepiva mancanza di soggettività passiva dell'imposta. Il Comune, riconosciuta la stessa, procedeva all'annullamento degli avvisi. Di tale circostanza nessuna delle parti processuali informava la Commissione tributaria provinciale che, accogliendo il ricorso, condannava il Comune al pagamento delle spese di giudizio. Da qui, l'appello alla Commissione tributaria regionale da parte dell'ente, che lamentava la nullità della sentenza per omessa applicazione dell'articolo 46 del Dlgs n. 546 del 1992 ovvero chiedendo l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

I giudici di merito hanno rilevato preliminarmente che la revoca di un atto in sede di autotutela, pur essendo un procedimento posto a garanzia del cittadino, rappresenta la mera correzione di errori o l'eliminazione di ingiusta pretesa che la Pubblica Amministrazione, attraverso l'operato prudente e diligente dei propri funzionari, può eliminare, al fine di evitare inutili spese per il cittadino. Per il caso in questione, la mancata comunicazione ai giudici di primo grado da parte del ricorrente della cessata materia del contendere non ha leso i principi di lealtà processuale e di probità, applicabili anche al giudizio tributario (articolo 88 c.p.c.), o quello di buona fede di cui all'articolo 10 della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente), ma costituisce un mancato adempimento di etica professionale che incombeva, in parte, anche sul Comune che aveva posto in atto una ingiusta pretesa fiscale, successivamente eliminata in autotutela.

La Commissione tributaria regionale, nel rilevare che, qualora i giudici di primo grado fossero venuti a conoscenza dell'avvenuta revoca dell'atto impositivo, avrebbero senza dubbio decretato la cessata materia del contendere, ha ritenuto di applicare la compensazione delle spese di giudizio (cfr. Cassazione, 1 ottobre 2004, n. 19695; Cassazione, 12 novembre 2003, n. 16987; Ctp Macerata, 13 novembre 2003, n. 114; Ctr Sicilia, 25 novembre 2002, n. 111) per effetto dell'articolo 46 del Dlgs n. 546 del 1992, all'epoca non ancora dichiarato costituzionalmente illegittimo.

I giudici, pertanto, in riforma della sentenza di primo grado, hanno dichiarato la cessata materia del contendere con la compensazione delle spese del primo giudizio, ritenendo non applicabile alla fattispecie in esame la sentenza n. 274 del 12 luglio 2005 della Corte costituzionale, in virtù del principio della efficacia della legge nel tempo (articolo 11 delle preleggi), a casi in cui era ancora vigente il terzo comma del citato articolo 46, dichiarato illegittimo costituzionalmente solo successivamente. Quanto precede, secondo i giudici, comporta che la declaratoria di estinzione della controversia per cessazione della materia del contendere nei casi di revoca di un atto impositivo in sede di autotutela, deve essere accompagnata dalla compensazione, ope legis, per intero delle spese di giudizio.

La stessa Commissione, infine, prendendo atto dell'orientamento giurisprudenziale che a più riprese(2) aveva sancito la disapplicazione del citato articolo 46, in quanto la rinuncia all'avviso di accertamento da parte dell'Amministrazione, pur determinando la cessata materia del contendere, comportava comunque la condanna alle spese della stessa Amministrazione, in base al principio della "soccombenza virtuale" - orientamento poi recepito dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 274/05 - ha ritenuto non applicabile al caso di specie i dettami della predetta sentenza, atteso che il medesimo articolo 46 all'epoca non era ancora stato dichiarato illegittimo.


NOTE:
1) Cassazione, 26 maggio 1998, n. 5224.

2) Ctp di Roma 30 giugno 2005, n. 256; Ctp di Bologna, sezione XVI, 29 gennaio 2005, n. 48; Ctr Lazio 2004, n. 8/2004; Ctr Campania, sezione XII, 10 febbraio 2003, n. 87.

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