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Giurisprudenza

La cessione contestuale di quote
rappresenta una cessione d’azienda

Al vaglio della Corte suprema, il trasferimento contemporaneo da parte di due soci, a un medesimo soggetto, delle partecipazioni rappresentanti l’intera compagine sociale

La quinta sezione della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11877 del 12 maggio 2017, è tornata a pronunciarsi sulla vexata quaestio della natura e dell’ambito applicativo della disposizione recata dall’articolo 20 del Testo unico in materia di imposta di registro, effettuando un’ampia ricognizione degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità sul tema e delineandone la differenza rispetto alla figura dell’abuso del diritto nonché della simulazione.
Nella specie, la sentenza in commento ha esaminato una ipotesi di cessione contestuale da parte di due soci – a un medesimo soggetto – delle quote rappresentanti l’intera compagine sociale, riqualificata quale cessione dell’azienda.
 
I fatti di causa
Nel novembre 2008, due soci – rappresentanti l’intera compagine sociale della società Alfa – cedevano con negozi contestuali le rispettive quote di partecipazione nella Alfa ad altra società Beta al valore nominale; gli atti venivano assoggettati a imposta di registro in misura fissa in applicazione del disposto dell’articolo 11 della Tariffa, parte I, allegata al Dpr 131/1986.
Il contenzioso trae origine dall’impugnazione dell’atto impositivo con il quale l’ufficio ha recuperato – in applicazione dell’articolo 20 del medesimo Dpr 131 – l’imposta di registro proporzionale in relazione alla cessione di quote sociali, ritenendo i negozi contestualmente posti in essere dai soci della Alfa espressione di un fenomeno giuridico unitario, tendente ad attuare l’effetto della cessione del compendio aziendale alla società Beta.
Con il medesimo atto, l’ufficio ha anche rideterminato il valore del complesso ceduto.
 
Le conclusioni dei giudici di merito
La Ctp di Pavia ha accolto il ricorso limitatamente alle sanzioni, ritenendo la violazione determinata da obiettive condizioni di incertezza, mentre ha ritenuto legittimo il recupero operato dall’ufficio poiché – dovendosi dare rilievo preminente alla causa reale e alla regolazione degli interessi perseguiti – la parte “non è stata in grado di dimostrare che il reale intento ricercato con il negozio giuridico fosse differente dalla cessione d’azienda”.
 
La decisione è stata riformata dalla Ctr di Milano, la quale, in accoglimento dell’appello dei contribuenti, con sentenza del 27 settembre 2012, ha annullato l’atto impositivo con la motivazione che “la parte non ha messo in atto un’operazione elusiva, ma solo la vendita di quote sociali”, mentre l’imprenditore deve essere autonomo nelle proprie selezioni economiche “senza elementi di criticità e di censura o di stravolgimento totale che, purtroppo, portano ad interpretare in modo diverso, e quindi sbagliato, il negozio giuridico compiuto dallo stesso”.
Nel caso di specie, infatti, secondo la Ctr “non si è in presenza di elusione d’imposta, così come sostenuto dall’ufficio, in quanto parte ricorrente non ha raggirato norme fiscali, pertanto le complessive imposte da versare devono essere la diretta conseguenza della lettura dell’atto stesso”, anche alla luce della natura dell’imposta di registro come imposta d’atto.
 
La posizione della Corte di cassazione
A seguito di impugnazione dell’Amministrazione finanziaria, con la sentenza 11877/2017, la Corte suprema è giunta a cassare la sentenza della Ctr di Milano[1], operando un’ampia ricostruzione degli orientamenti espressi sulla natura e sull’ambito applicativo della disposizione recata dall’articolo 20 del Dpr 131/1986, ai sensi del quale “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
Si tratta di questioni che la giurisprudenza si è trovata più volte ad affrontare, su cui si registra sovente una diversità tra le posizioni espresse dai giudici del merito e quelle espresse dalla Corte di cassazione.
 
Nella sentenza in commento, la V sezione evidenzia, in primo luogo, che il giudice di merito non ha colto il profilo giuridico rilevante nella causa “giacché esso non è attinente a una supposta elusione dell’istituto contrattuale che regola la circolazione della proprietà dell’azienda, ma dell’imposta”, laddove, invece, la Ctr ha ritenuto priva di logica dimostrazione la definizione dell’operazione – ai fini dell’imposta di registro – come elusiva dell’istituto contrattuale del trasferimento d’azienda.
Ciò premesso, la Corte suprema ha ribadito che costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello che esclude che l’articolo 20 del Dpr 131/1986 sia norma “predisposta al recupero di imposte «eluse»”, poiché l’abuso del diritto “presuppone una mancanza di «causa economica» che non è viceversa prevista per l’applicazione dell’art. 20 citato, disposizione la quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il collegamento di più atti in ragione del loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale come può appunto avvenire con la cessione delle quote della società, atti che se funzionalmente e cronologicamente «collegati» potrebbero essere senz’altro idonei a realizzare «oggettivamente» gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo (Cass. n. 3562/2017)[2].
 
Secondo il collegio giudicante, la fattispecie regolata dall’articolo 20 citato, inoltre, “nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché quel che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi (ex multis, Cass. n. 9582/2016; n. 10211/2016; n. 9573/2016; n. 18454/2016; n. 2050/2017)[3].
L’articolo 20 del Tur, invero, deve essere letto nel senso che occorre dare prevalenza alla natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici rispetto al titolo e alla loro forma apparente; in particolare, l’interprete è vincolato a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici “rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (Cass. n. 10216/2016; n. 1955/2015; n. 14150/2013; n. 6835/2013)[4].
 
Tale lettura, secondo la Corte suprema, è frutto della evoluzione normativa che ha caratterizzato la prestazione patrimoniale tributaria di registro da regime di tassa “avente come oggetto l’atto inteso nella sua forma documentale, e come contenuto una determinata quantità di denaro da riscuotere in corrispettivo del servizio di registrazione”, a quello dell’imposta “avente come oggetto la manifestazione di capacità contributiva correlabile a una ben dimostrata forza economica”.
Pertanto, anche se l’oggetto dell’imposta di registro “per quanto genericamente e formalmente individuata nel riferimento dell’art. 1, agli atti soggetti a registrazione o volontariamente presentati per la registrazione, nella sostanza, è costituito dagli effetti giuridici di tali atti, ma l'imposta si collega all'atto come negozio e non all'atto come documento (Cass. n. 3481/2014)”, non ostando a tale conclusione la diversità dei criteri interpretativi utilizzabili ai fini tributari, rispetto a quelli civilistici[5].
 
In tale quadro, la Corte di cassazione giunge, quindi, a ritenere priva di rilievo la ricerca delle ragioni economiche giustificatrici dell’operazione in quanto, una volta riconosciuto, alla luce dei principi innanzi enunciati, che ci si trova di fronte a un caso di cessione d’azienda (o di ramo d’azienda), non è richiesta alcuna valutazione sull’esistenza o meno di tali ragioni.
Per le motivazioni illustrate, la V sezione, da ultimo, fa espresso richiamo alla precedente pronuncia 2054/2017, di diverso tenore[6], ritenendo di disattenderla in quanto propone una lettura dell’articolo 20, più volte richiamato, che “mal si concilia con il principio costituzionale della capacità contributiva ed ignora la ricordata evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell’imposta[7].
 
[1] La Corte ha affermato che “il Giudice di appello, sull’erronea premessa di una considerazione esclusivamente atomistica delle cessioni delle quote di partecipazione alla società, ha trascurato l’efficacia interpretativa e probatoria di tutti gli elementi fattuali dedotti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento della causa unitaria di cessione aziendale”.
[2] cfr in termini, Cassazione, 9582/2016, nella quale si afferma che “l’art. 20 D.P.R. 131 cit. non è disposizione che dal legislatore sia stata predisposta al recupero di imposte «eluse», questo perché l’istituto dell’«abuso del diritto» d’imposte in attualità disciplinato dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis presuppone una mancanza di «causa economica» che non è invece prevista per l'applicazione dell'art. 20 D.P.R. n. 131 cit.”. Si tratta, invece, secondo la Corte, di norma che “… semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l'atto o il «collegamento» negoziale in ragione del loro «intrinseco». E cioè in ragione degli effetti «oggettivamente» raggiunti dal negozio o dal «collegamento» negoziale, come per es. può avvenire con il conferimento di beni in una Società e la cessione di quote della stessa che se «collegati» potrebbero essere senz'altro idonei a realizzare «oggettivamente» gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo”. In tal senso, anche sentenza 6758/2017.
[3] cfr articolo 1414 cc, secondo cui “Il contratto simulato non produce effetto tra le parti. Se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma”. Secondo la disciplina del codice civile, la simulazione si caratterizza per la divergenza tra le dichiarazioni delle parti e l’interno volere.
[4] cfr Cassazione, 3562/2017, che ha ribadito che “l’incorporazione in un solo documento di più dichiarazioni negoziali, produttive di effetti giuridici distinti e l’incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell’effetto giuridico finale dei loro comportamenti, semplici o complessi che essi siano”.
[5] Poiché in applicazione dell’articolo 20, Dpr 131/1986, va sempre attribuita preminenza alla causa reale dell’operazione economica rispetto alle forme negoziali utilizzate dalle parti “ai fini della individuazione del corretto trattamento fiscale, è possibile valutare, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, circostanze ed elementi di fatto diversi da quelli emergenti dal tenore letterale delle previsioni contrattuali’ (Cass. n. 6405/2014), di guisa che «gli stessi concetti privatistici sull'autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria» (Cass. n. 19752/2013; n. 10660/2003; n. 14900/2001)”. In termini, recentemente, sentenza 3481/2014 e ordinanza 24594/2015.
[6] Che ha ritenuto non superabile, attraverso una attività di riqualificazione da parte dell’ufficio, lo schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile; in mancanza di prova, a carico dell’amministrazione finanziaria, del disegno elusivo, ricorre piuttosto una ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro.
[7] In particolare, secondo la V sezione, “la ricordata sentenza (n. 2054/2017) non considera la molteplicità delle forme in cui l’autonomia contrattuale prevista dall’art. 1322 c.c., può potenzialmente esprimersi, né tantomeno dà il giusto spazio, nella individuazione della materia imponibile, alla c.d. “causa concreta” del contratto, ovvero lo scopo pratico del negozio inteso, al di là del modello astratto utilizzato, come funzione individuale della singola e specifica negoziazione, questione che non può essere sbrigativamente superata richiamando la intangibilità dello schema negoziale tipico (v. per tutte, Cass. n. 10490/2006), e neppure al fenomeno del collegamento negoziale, «meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico complesso, che viene realizzato, non attraverso un autonomo e nuovo contratto, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è concepito, funzionalmente e teleologicamente, come collegato con gli altri, cosicché le vicende che investono un contratto possono ripercuotersi sull’altro. Ciò che vuoi dire che, pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi» (Cass. n. 12454/2012)”.
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