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Giurisprudenza

Cessione d'azienda, fuoco incrociato sull'avviamento

Il suo valore è "contestabile" con lo strumento dell'accertamento induttivo effettuato sulla base del valore determinato in sede di imposta di registro

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In materia di tassazione della plusvalenza patrimoniale derivante dalla cessione di azienda, spetta al contribuente superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in sede di applicazione dell'imposta di registro. La Cassazione (sentenza n. 19830 del 18 luglio 2008) conferma, dunque, la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere, in tali circostanze, in "via induttiva", ribaltando completamente le pronunce dei giudici di merito.

La vicenda ha inizio negli anni novanta, quando l'ufficio di Nola notifica al contribuente, un venditore ambulante, un avviso di accertamento per il 1995, come conseguenza di una rettifica del reddito d'impresa, determinato (ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del Dpr 600/1973) in 61 milioni di lire in luogo dei 17 milioni di lire dichiarati.

Il commerciante proponeva ricorso, sostenendo che il criterio seguito per calcolare il maggior valore di cessione del ramo d'azienda, che faceva riferimento al valore determinano ai fini dell'imposta di registro applicata all'atto di vendita, doveva essere considerato errato, contestando, nel contempo, la percentuale di ricarico applicata sul costo del venduto, "in quanto esagerata e non provata in alcun modo". La tesi era accolta dai giudici tributari di primo grado e la Ctr, a confermare, sottolineava che "l'Ufficio, invece di operare in base al metodo induttivo, poteva accertare con cognizione di causa sia la cessione dell'azienda che l'effettiva congruità dei ricavi dichiarati".

In pratica, nella fattispecie, ai fini dell'imposta di registro, il valore dell'azienda dichiarato era risultato notevolmente inferiore rispetto a quello determinato dall'ufficio sulla base della presenza di beni di azienda e di movimentazioni contabili, analiticamente indicati nel provvedimento impugnato. La presunzione a favore dell'Amministrazione finanziaria, però, non era stata contestata dal contribuente mediante la produzione in giudizio di prove circa il valore di mercato dei beni ceduti. E il valore dell'azienda, così come ricostruito, aveva indotto l'ufficio a ulteriori accertamenti, dai quali era emersa una percentuale di ricarico sul costo del venduto di 65 milioni di lire, pari al 29%, ossia molto irrisoria in riferimento all'attività di commercio ambulante di abbigliamento - per la quale invece gli studi di settore indicano percentuali di ricarico che vanno dal 50 al 100 per cento. Dunque, la percentuale applicata del 50% era completamente favorevole al commerciante.

Sulla questione, è arrivata dalla Cassazione, ancora una volta, la conferma di un principio dalla stessa ripetutamente affermato in altre sentenze (4117/2002, 21055/2005, 12899/2007), secondo cui "l'Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all'accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore di avviamento, realizzata a seguito di cessione di azienda, sulla base dell'accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell'imposta di registro, ed è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell'imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore".

Il Fisco può, cioè, sindacare con lo strumento dell'accertamento induttivo la congruità dei valori attribuiti dal cedente dell'azienda ai singoli elementi dell'attivo patrimoniale (nel caso di specie, all'avviamento), operando l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve vincere la presunzione posta a favore dell'Amministrazione, se del caso, facendo anche ricorso a elementi indiziari, della corrispondenza del corrispettivo incassato con quello di mercato dei beni già precedentemente accertato in altro settore impositivo.

Anche con riguardo all'applicazione delle percentuali di ricarico, la Suprema corte aveva già avuto modo di affermare, in tema di imposte sui redditi delle imprese minori, che "perché sia legittima l'adozione, da parte dell'Ufficio tributario, nell'accertamento di un maggior reddito d'impresa, del criterio induttivo di cui al DPR 20 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2, non basta il solo rilievo dell'applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico diversa da quella risultante da uno studio di settore, ma occorre che risulti qualche elemento ulteriore incidente sull'attendibilità complessiva della dichiarazione". In applicazione di tale principio, i giudici hanno ritenuto legittima l'applicazione del metodo induttivo in considerazione del fatto che il contribuente, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo in contestazione, aveva omesso di indicare il valore delle rimanenze di esercizio e non aveva mai assolto all'incombenza di esibire il relativo prospetto, alla cui tenuta sono obbligate anche le imprese soggette a contabilità semplificate.

 

 
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