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Giurisprudenza

Il codice era quello sbagliato

Sulla sospensione del processo, i rapporti interni tra giudizi tributari sono regolati dall'articolo 295 c.p.c. e non dal 39 del Dlgs 546/1992

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L'articolo 39 del Dlgs 546/92, in tema di sospensione del processo, disciplina unicamente i rapporti tra processo tributario e processi non tributari, mentre quelli tra processi tributari sono regolati dall'articolo 295 c.p.c.
Quanto precede è contenuto nella sentenza n. 13082 del 12 aprile 2006, depositata il 1° giugno 2006, della Corte di cassazione (sezione tributaria), da cui emerge che, in tema di sospensione, ai rapporti interni tra processi tributari non trova applicazione il citato articolo 39 - per cui il giudizio si sospende solo quando è presentata querela di falso o è decisa una questione in via pregiudiziale - ma la disciplina di cui all'articolo 295 c.p.c., in virtù del rinvio alle norme del Codice di procedura civile di cui all'articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/92 (cfr Cassazione n. 3420/2005).

Il legislatore ha introdotto, infatti, nel giudizio tributario ipotesi tassative di sospensione del giudizio in caso di presentazione di querela di falso o quando deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio su cui deciderà il collegio. Le predette ipotesi tassative di sospensione "necessaria" del giudizio derivano dalla vigente formulazione dell'articolo 295 c.p.c. Nel giudizio civile la sospensione necessaria deve essere disposta dal giudice, mentre quando è richiesta dalle parti assume natura facoltativa: non è applicabile la sospensione facoltativa o su istanza di parte, in quanto non sussiste la possibilità delle parti di concordare tra loro la sospensione del processo.

E' noto che, sotto il profilo di teoria generale, l'articolo 295 c.p.c. prevede l'istituto della sospensione necessaria del processo allorché non sia più possibile procedere alla riunione dei procedimenti, che siano in rapporto di continenza - pregiudizialità, poiché non sono previsti più specifici rimedi per prevenire il rischio di giudicati contrastanti e/o la antieconomica reiterazione di attività processuali, funzionali alla adozione di una decisione unica sulla medesima questione.

La giurisprudenza ha esaminato la vexata quaestio della relazione tra l'articolo 39 del Dlgs 546/92 e l'articolo 295 c.p.c., alla luce del principio di integrazione di cui all'articolo 1, comma 2, dell'articolo 546/92 (Cassazione, sentenza n. 16338/2003), ritenendo che le due ipotesi ex articolo 39 non possono esaurire l'intero problema (rectius: campo di applicazione) della sospensione necessaria, ex articolo 295 del Codice di procedura civile, che sussiste quando vi sia una situazione di dipendenza della causa dalla definizione di altra controversia che lo stesso o altro giudice deve risolvere.

In tema di sospensione necessaria, l'articolo 295 c.p.c. riguarda sia la pregiudizialità interna che la pregiudizialità esterna al processo tributario, relativa, quest'ultima, a controversie che devono essere risolte dal giudice penale o dal giudice amministrativo; l'articolo 39 del Dlgs 546/92 concerne i rapporti esterni tra Commissioni tributarie e giurisdizione civile e non anche i rapporti interni tra processi tributari che, in virtù del principio di integrazione di cui all'articolo 1 del Dlgs 546/92, sono disciplinati dall'articolo 295 del c.p.c.

Tale disposizione disciplina, in via residuale, l'ipotesi in cui la decisione di una causa tributaria, pendente dinanzi a un giudice tributario, dipenda dalla risoluzione di un'altra controversia tributaria pure pendente dinanzi a un altro giudice tributario; in altri termini, qualora, dinanzi a differenti giudici tributari, siano pendenti controversie tra loro interdipendenti e non sia possibile procedere alla riunione dei procedimenti, non trova applicazione la sospensione su istanza di parte, di cui all'articolo 296 c.p.c., ma il disposto dell'articolo 295 c.p.c.

Nella fattispecie in esame, una società per azioni impugnava l'atto con cui l'Ufficio tecnico erariale aveva attribuito la rendita catastale ad alcuni suoi immobili di categoria D/1. La Commissione tributaria di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso, determinando una nuova rendita, mentre la Commissione tributaria regionale rigettava l'appello della società. Nelle more, con avviso di liquidazione, l'Ute contestava l'insufficiente versamento ai fini Ici in relazione alla rideterminazione della rendita catastale, avvenuta nei giudizi in cui era parte.

La citata società ha impugnato tale nuovo atto dell'Amministrazione finanziaria, ma né la Commissione tributaria di primo grado, né la Ctr si pronunciavano in senso a essa favorevole.
Da qui, il ricorso per cassazione e l'eccezione di mancata sospensione del giudizio in attesa della definizione della causa concernente la determinazione delle rendite catastali, dalla quale dipendeva la stessa definizione del giudizio di legittimità.

La Suprema corte, nel censurare le motivazioni addotte dai giudici di secondo grado, per i quali la fattispecie in esame, esulando dalla casistica dell'articolo 39 del Dlgs 546/92, non consente la sospensione del giudizio, ha puntualizzato che la medesima disposizione disciplina i rapporti esterni con la giurisdizione civile, ma non anche i rapporti interni tra processi tributari, per i quali valgono le norme del c.p.c., tra cui l'articolo 295, a cui fa espresso rinvio l'articolo 1, comma 2, del medesimo Dlgs 546/92.

Così facendo, è stata cassata la sentenza della Commissione tributaria regionale che non aveva sospeso il processo, pronunciando nel merito sull'impugnativa dell'avviso di liquidazione dell'Invim decennale, relativo a un fabbricato in ordine al quale l'Ute aveva notificato la rendita, autonomamente impugnata in altro giudizio non ancora definito.

I giudici di legittimità hanno ritenuto, quindi, accogliendo un univoco orientamento giurisprudenziale (cfr Cassazione n. 24408/2005, n. 17937/2004, n. 10509/2002), che se è possibile impugnare l'avviso di liquidazione per vizi propri, è altrettanto ammesso che, quando un giudizio sull'attribuzione della rendita esiste già ed è pendente, o si procede alla riunione dei due giudizi oppure si deve attendere che il giudizio relativo all'attribuzione della rendita, da ritenere pregiudiziale, divenga giudicato, atteso che un'altra soluzione non è ipotizzabile proprio "per non vanificare le esigenze sottese alla disciplina prevista dall'art. 295 Cpc".

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