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Giurisprudenza

La commessa perduta non fa uscire
dallo standard degli studi di settore

Valide le contestazioni del Fisco, se emergono elementi che non giustificano la disapplicazione degli Sds né convincono le motivazioni sostenute dal contribuente nel contraddittorio

È legittimo l’accertamento basato sugli studi di settore anche qualora l’impresa abbia perso la commessa di un cliente importante ma nel contempo abbia aumentato nell’anno di riferimento i costi per il personale dipendente.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 9484 del 12 aprile 2017, con cui ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.
 
La vicenda processuale
Con una sentenza del 2011, la Ctr della Calabria, accogliendo l’appello proposto da una Srl, annullava un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate aveva rettificato il reddito imponibile sulla base dello studio di settore.
Secondo i giudici di appello, l’ufficio aveva rigettato tutte le osservazioni presentate dalla contribuente a confutazione della presunta gestione antieconomica, senza procedere a ulteriori approfondimenti anche attraverso l’esame dei dati contabili.
 
Col successivo ricorso in Cassazione l’Agenzia delle Entrate aveva denunciato la violazione dell’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, in quanto la Ctr aveva negato valenza indiziaria allo studio di settore, senza considerare gli altri elementi offerti dall’ufficio, attestanti una gestione antieconomica dell’attività e non giustificati, ovvero: l’andamento dei ricavi nel quinquennio 2002/2006 con congruità solamente in un anno; redditi sempre negativi a fronte di costi, soprattutto per personale dipendente, costantemente crescenti e a fronte dell’erogazione di finanziamenti da parte dei soci per oltre due milioni di euro (cosa che forse avrebbe dovuto far scattare un’indagine da redditometro nei confronti dei soci stessi).
La pronuncia impugnata sarebbe incorsa anche in un vizio motivazionale per aver attribuito rilievo alla risoluzione di un mandato di una nota casa automobilistica, omettendo di considerare che proprio in quell’anno (cui si riferisce anche l’avviso di accertamento) le retribuzioni del personale dipendente risultavano cresciute rispetto al precedente.
 
La pronuncia della Cassazione
Con la sentenza in commento, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, rinviando la controversia ad altra sezione della Ctr, anche per la regolazione delle spese di lite.
La pronuncia ricorda innanzitutto l’ormai granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità (formatosi a partire dalle sentenze a sezioni unite 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009), che ha ben delineato i paletti per un corretto utilizzo dello strumento degli studi di settore: secondo tale giurisprudenza (cfr anche Cassazione, sentenze 10778/2011 e 19710/2013), gli studi di settore rappresentano un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza nasce solo in seguito al contraddittorio con il contribuente, da attivare obbligatoriamente.
 
In questa sede, il contribuente ha l’onere di dimostrare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustifichino l’esclusione dell’impresa dalle condizioni di normalità cui soltanto si applicano tali strumenti; l’ufficio, dal canto suo, nelle motivazioni dell’avviso di accertamento, non solo deve dare dimostrazione della concreta applicabilità al caso concreto dello “standard” prescelto, ma deve anche esplicitare le ragioni per le quali ritiene non condivisibili le contestazioni sollevate dal contribuente.
In altri termini, è necessaria una personalizzazione dei risultati dello studio di settore da attuarsi attraverso il contraddittorio (obbligatorio) con il contribuente che, forse, nel caso di specie, avrebbe dovuto condurre ad annullare in autotutela la pretesa impositiva.
 
Due sono, quindi, gli elementi fondamentali per un utilizzo legittimo di tale strumento:
  1. la personalizzazione dei risultati attraverso il preventivo contraddittorio con il contribuente i cui esiti vanno poi trasfusi nella motivazione dell’atto impositivo
  2. la necessità di appurare una grave incongruenza ovvero un risultato fuori dalla logica imprenditoriale, non essendo sufficiente una rielaborazione dello studio che determini uno scostamento irrisorio (soprattutto in termini percentuali) rispetto ai ricavi dichiarati. 
    Nel caso di specie, l’errore della Ctr sarebbe stato quello di non illustrare il percorso logico che l’ha condotta a ritenere inadeguata la motivazione dell’atto impositivo, non indicando quali elementi, oltre alla risoluzione del mandato dell’importante casa automobilistica, avrebbero dovuto indurre l’Agenzia a maggiori approfondimenti e omettendo di valutare gli altri indizi offerti dall’ufficio.
Inoltre, la Ctr, quale giudice del rapporto tributario (e non solo dell’atto), avrebbe dovuto fornire specifica valutazione della fondatezza delle giustificazioni fornite dal contribuente: ciò anche alla luce del principio prima richiamato che, “ponendo a fondamento dell'accertamento standardizzato sulla base degli studi di settore lo svolgimento del contraddittorio, giustifica la formazione di un sistema di presunzioni semplici la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati, ma, appunto, dalla valutazione delle controdeduzioni del contribuente cui essi sono applicati; valutazione dalla quale non può, quindi, esimersi il giudice tributario”, pena la commissione della denunciata violazione di legge.
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