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Giurisprudenza

Compensazione crediti inesistenti:
l’inerzia non ammette ignoranza

Il cliente, disinteressato, che si dichiara estraneo al disegno fraudolento del commercialista, acquista “di diritto” lo status di concorrente nel reato, anche se inizialmente ne appariva vittima

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Risponde del reato di indebita compensazione il contribuente che, nonostante non abbia curato direttamente la predisposizione del modello di pagamento, non si è attivato per avere conoscenza dei meccanismi fraudolenti, utilizzati dal professionista al quale si era affidato, per generare crediti d’imposta indebitamente compensati. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza n. 39333 del 25 settembre 2019.
 
I fatti
Il tribunale di Napoli ha rigettato la richiesta di riesame proposta avverso il sequestro preventivo disposto dal Gip sui beni di un uomo, ritenuto responsabile, in concorso con il proprio commercialista, del reato tributario di indebita compensazione (ex articolo 10-quater, Dlgs n. 74/2000).
In particolare, prendendo in considerazione l’entità delle somme oggetto di evasione, l’ordinanza ha esaminato la circostanza che il contribuente aveva acquisito lo status di concorrente nel reato, anche se inizialmente ne appariva vittima, in quanto ignaro della procedura fraudolenta avvenuta a sua insaputa. Il contribuente, infatti, aveva ottenuto la compensazione di un debito fiscale di quasi 700mila euro con un importo pressoché corrispondente di crediti certamente inesistenti, nella più totale e sospetta inerzia personale, e in apparenza senza provvedere ad alcun tipo di reazione ovvero di controllo. Inoltre, ricevute ben trentadue cartelle di pagamento, l’uomo non si era preoccupato di dedurre la concreta esistenza di crediti idonei a contrastare la pretesa erariale, ovvero di altre ragioni sufficienti a esperire vittoriosamente il ricorso giurisdizionale tributario (al di là della prescrizione delle tasse automobilistiche).
 
Un simile comportamento inerte avrebbe avuto conseguenze in termini di valutazione della sua buona fede e dei suoi rapporti con il suo professionista, anche lui indagato, scelto perché aveva fama di abituale vincitore nel contenzioso fiscale. Da tale contesto, il tribunale ha ricavato sia la consapevolezza, da parte dell’uomo, dell’illiceità delle operazioni di indebita compensazione fiscale effettuate dal commercialista, sia la mancanza di prova della buona fede del contribuente, nonostante quest’ultimo avesse asserito che, con il commercialista, aveva avuto solamente un unico rapporto professionale e che non c’era stato un previo accordo tra loro. L’uomo ha proposto ricorso per cassazione e la Corte lo ha dichiarato inammissibile, ribadendo che “in tema di sequestro preventivo non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire l’astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato …” (cfr Cassazione, pronunce nn. 18491/2018 e n. 5656/2014).
 
Osservazioni
I giudici di legittimità si sono pronunciati sulla responsabilità del contribuente per il reato di indebita compensazione e sulla legittimità della misura cautelare adottata. Con riferimento al delitto ex articolo 10-quater, Dlgs n. 74/2000, si tratta di un reato “proprio” perché  può  essere  realizzato solo dal contribuente, che non  può  trasferire  ad  altri  la titolarità degli obblighi e degli adempimenti fiscali che gravano su di lui. Al riguardo, la Cassazione (pronuncia n. 15231/2017) ha chiarito che, tuttavia, può essere responsabile del reato anche un soggetto diverso dal suo autore “proprio”: il commercialista, cioè, può rispondere degli illeciti fiscali commessi dal suo cliente qualora lo abbia indotto a compensare, con indicazioni ingannevoli, crediti mai riconosciuti dall’amministrazione finanziaria. Diversamente, quando non vi è prova dell’esistenza di un “exstraneus” che abbia indotto il contribuente al reato, la responsabilità del delitto è del solo contribuente. Quando poi quest’ultimo ha concorso col professionista nella commissione del reato, allora la responsabilità è di entrambi. Soprattutto se il contribuente, come accaduto nella fattispecie al vaglio dei giudici di legittimità, si è limitato a dichiararsi inconsapevole ed estraneo in relazione agli illeciti commessi dal proprio professionista.
Proprio dal comportamento dell’uomo emerge che non ha agito in buona fede e quindi non può affermarsi la sua estraneità ai fatti illeciti. Il suo disinteresse a comprendere le sorti delle numerose cartelle è stato indizio evidente della sua consapevolezza del meccanismo fraudolento. Tali conclusioni, del resto, sono in linea con l’orientamento di legittimità formatosi in relazione al reato di indebita compensazione e al ruolo assunto dal professionista, ideatore del disegno fraudolento attraverso diversi modelli seriali di evasione.
 
La Corte (pronuncia n. 1999/2018) ha affermato, infatti, che integra il delitto di indebita compensazione il pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti di imposta a seguito dell’accollo fiscale, ove commesso da alcuni professionisti che avevano apposto i visti di conformità obbligatori per la certificazione dei crediti inesistenti di numerose società, elaborando o commercializzando modelli di evasione fiscale.
 
Con riferimento all’elemento psicologico del reato, poi, l’articolo 10-quater richiede il dolo generico rappresentato dalla coscienza e volontà, all’atto del versamento, di utilizzare crediti non spettanti o inesistenti per un ammontare superiore a 50mila euro per ciascun periodo di imposta, a prescindere da un distinto fine specifico perseguito dal contribuente.
 
Nella fattispecie esaminata, tuttavia, la Corte, pur chiarendo che in sede di riesame il giudice possa verificare il difetto dell’elemento soggettivo del reato purché emerga ictu oculi (Cassazione, n. 18331/2016), ha ritenuto che tale evenienza non si era verificata. Ciò in quanto, in sede di controllo sui presupposti per l’adozione di una misura cautelare reale, i giudici di piazza Cavour hanno premesso che, in generale, il tribunale del riesame deve verificare non solo l’astratta configurabilità del reato, ma anche, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali e, quindi, sia gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, sia le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato (Cassazione, n. 58008/2018). Nel caso specifico, il tribunale napoletano ha dato conto dell’infondatezza delle contestazioni addotte quanto alla pretesa insussistenza degli elementi idonei a rappresentare il fumus, con particolare riferimento all’avvenuto pagamento di corrispettivo per la prestazione offerta dallo studio professionale, e alla mancanza assoluta di consapevolezza originaria del meccanismo fraudolento utilizzato dal professionista per trattare le pratiche dei clienti.
In conclusione, sussiste il fumus commissi delicti del reato di indebita compensazione nei confronti del soggetto che, seppure si sia affidato a un commercialista, abbia portato in compensazione un debito elevato senza avere alcuna giustificazione in merito all’ammontare o quantomeno all’esistenza di crediti da portare in compensazione.
 

 
 

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