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Giurisprudenza

Compensi all’amministratore unico:
se “esosi”, è esclusa la deducibilità

Le scelte imprenditoriali sono insindacabili, neanche l’Amministrazione finanziaria ha potere di farlo. Ma può valutare la congruità di costi e ricavi iscritti in bilancio

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Con ordinanza n. 9036 del 15 aprile, la Corte di cassazione ha stabilito, in tema di reddito di impresa, che è indeducibile, in sede di bilancio societario, il compenso dell’amministratore unico quando è ritenuto sproporzionato e privo di ragioni economiche giustificative.
 
Vicenda processuale
La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso proposto da una Srl avverso un avviso di accertamento Irpeg/Irap, con il quale l’ente impositore recuperava a tassazione parte del compenso corrisposto all’amministratore unico, trattandosi di costo sproporzionato.
Il giudizio veniva confermato in appello, ove la Commissione regionale disattendeva le ragioni della contribuente per non avere, quest’ultima, né dedotto né fornito prova dell’esistenza di valide ragioni economiche a giustificazione della deduzione del componente negativo di reddito.
Nel conseguente ricorso per cassazione la società assume, principalmente, violazione di legge (articoli 95 e 109 del Tuir), laddove la decisione impugnata ha riconosciuto all’Amministrazione finanziaria il potere di valutare la deducibilità del compenso corrisposto all’amministratore unico.
 
A questo riguardo si dà atto, a priori, che la questione prospettata non è pacifica nella giurisprudenza di legittimità, atteso che, secondo un primo indirizzo (cfr Cassazione 6599/2002, 21155/2005, 28595/2008 e 24957/2010), l’Amministrazione finanziaria non avrebbe il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori, in quanto non sarebbe possibile sindacare le scelte imprenditoriali. In senso contrario si è però rilevato (cfr Cassazione 13478/2001 e 21169/2008) che, nella determinazione del reddito imponibile, l’Amministrazione finanziaria può contestare la deduzione dei componenti negativi di reddito operata dal contribuente soltanto all’esito della dimostrazione del difetto di inerenza, certezza e congruità degli oneri medesimi; conseguentemente, laddove si intenda confutare la deducibilità dei compensi riconosciuti agli amministratori, grava sull’Erario evidenziare elementi, dati e circostanze atti a contestarne congruità e ragionevolezza.
 
La decisione
Decidendo la vertenza, la Corte di cassazione rigetta l’opposizione societaria e consolida l’orientamento secondo cui l’Amministrazione finanziaria può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni dei redditi, pur in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi negli atti giuridici compiuti nell’esercizio di impresa, con la possibilità di negare la deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, non essendo l’ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti (in tal senso, cfr Cassazione 9497/2008).
In altre parole, se i costi dell’azienda sono eccessivi rispetto ai ricavi, è naturale che scatti un verosimile sospetto di manovra finalizzata a ottenere vantaggi indebiti (cfr Cassazione 3243/2013).
 
Com’è noto, ai sensi del vigente articolo 95 del Tuir (già articolo 65), i compensi degli amministratori di società sono deducibili “nell’esercizio in cui sono corrisposti”, in applicazione quindi del criterio di cassa.
In particolare, gli emolumenti dei liquidatori e degli amministratori delle società di capitali e delle società di persone sono soggetti al seguente regime fiscale:
  • in capo alla società, sono deducibili nell’esercizio in cui sono pagati
  • in capo ai liquidatori e agli amministratori, sono tassabili nell’esercizio in cui sono incassati.
 
In secondo luogo, nell’ordinanza 9036/2013 viene ribadito che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, incombe sul contribuente la prova dei presupposti e oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito di impresa (articolo 109 Tuir), ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive dei ricavi.
Peraltro, l’onere della prova dell’inerenza, gravante sul contribuente, ha a oggetto anche la congruità dei medesimi (cfr Cassazione 4554/2012 e 26480/2010). Ciò per la considerazione che il difetto di congruità si risolve in un difetto di inerenza (cfr Cassazione 12813/2000).
La prova investe, quindi, certezza, competenza, inerenza, al fine di assicurare l’ortodossa imputazione del costo sostenuto in base alla normativa vigente (cfr Cassazione 5494/2013).
 
D’altro canto, è inopponibile all’Amministrazione finanziaria il risultato elusivo ottenuto dall’impresa nel “conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici” (cfr Cassazione 12622/2012 e 30055/2008).
 
La pronuncia, peraltro, è coerente anche con l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria, laddove ha affermato che, in sede di attività di controllo, l’ente impositore può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei componenti negativi di cui si tratta in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi (cfr risoluzione 113/E del 2012).
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