Articolo pubblicato su FiscoOggi (https://fiscooggi.it/)

Giurisprudenza

Il conseguimento del profitto qualifica la natura commerciale dell’attività

L’utilità economica non è necessariamente rappresentata dal denaro

_2395.jpg
Lo scopo di lucro, che costituisce requisito essenziale della nozione di impresa, è individuabile non solo quando l’attività d’impresa sia rivolta al diretto incremento patrimoniale, bensì in qualsiasi utilità economica, consista questa in un risparmio di spesa o in un altro vantaggio patrimoniale. Conseguentemente, l’attività d’impresa non è esclusa per il fatto che il profitto (o “lucro”) conseguito dal contribuente venga capitalizzato in beni anziché in denaro.
E’ quanto affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 2809 del 7 febbraio 2008.
La controversia traeva origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento con cui l’agenzia delle Entrate rettificava i redditi prodotti da un contribuente esercente l’attività di commercio di articoli di gioielleria, il quale, oltre a omettere la presentazione della dichiarazione d’inizio di attività, non aveva neppure tenuto i registri contabili, non aveva emesso fatture relative a operazioni imponibili, né aveva presentato la dichiarazione dei redditi annuale.

In particolare, i rilievi erano scaturiti da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, con cui i verificatori rilevarono che il suddetto contribuente aveva svolto un’attività fiscalmente rilevante consistente, oltre che nell’acquisto di lotti di oro e di altri oggetti preziosi usati dalle case d’asta, anche nella selezione di tali oggetti, nella successiva rivendita dei rottami (ovvero di beni inidonei a essere venduti come merce finita, ma destinati a essere rivenduti sotto forma di rottami di gioielli d’oro) e degli oggetti di modico valore a ditte autorizzate e, infine, nella costituzione di una “scorta di beni rifugio” formata dagli oggetti preziosi di maggior valore, detenuti come investimento personale.

Avverso detto avviso di accertamento il ricorrente presenta ricorso, sostenendo di avere agito in buona fede e di avere posto in essere operazioni di acquisto e di rivendita solo occasionalmente, senza perseguire alcun fine di lucro e non avvalendosi di alcuna organizzazione. Inoltre, la costituzione di “beni rifugio” rappresentava un investimento personale, senza alcun intento speculativo; pertanto, l’attività svolta non aveva natura imprenditoriale.

I giudici di prime cure accoglievano la tesi difensiva del contribuente, mentre la Commissione tributaria regionale confermava la rettifica dell’ufficio.
Il contribuente presenta ricorso per cassazione.

Tanto premesso, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che l’attività in questione rientrava nell’esercizio d’impresa commerciale a causa del carattere continuativo e non occasionale della pluralità degli atti economici posti in essere, a nulla rilevando che l’attività intrapresa non era stata rivolta (nella massima parte) al diretto incremento pecuniario, ovvero a scopo di lucro.
A giudizio della Corte, la professione abituale ricorre ove un soggetto ponga in essere con regolarità, sistematicità e ripetitività una pluralità di atti economici coordinati e finalizzati al raggiungimento di uno scopo, con esclusione, quindi, solo delle ipotesi di atti economici posti in essere in via meramente occasionale.
Peraltro, è del tutto irrilevante che l’esercizio dell’impresa si esaurisca in un singolo affare, poiché anche il compimento di un unico affare può costituire impresa quando implichi l’esecuzione di una serie coordinata di atti economici.

In particolare, per i giudici di legittimità, l’attività di vendita di preziosi (avvenuta prevalentemente mediante la sottoscrizione di “mandati a vendere” con case d’asta private) si traduceva in una vera e propria impresa commerciale, in quanto il contribuente aveva posto in essere numerose e crescenti operazioni di vendita di preziosi, giungendo a realizzare un considerevole volume di affari e aveva dimostrato, altresì, una competenza specifica circa la distinzione tra preziosi di maggior e minor valore o tra preziosi e rottami, che implicava un certo grado di professionalità.
Nondimeno, la mancanza di altre fonti di reddito e il rilevante “giro d’affari” accertato dalla Guardia di finanza per ciascun periodo d’imposta, facevano ritenere che gli acquisti di oggetti preziosi usati configurassero un’attività di commercializzazione di gioielli e non certo semplici operazioni senza fine di lucro.

Con la sentenza in epigrafe, è stato altresì precisato che, per poter attribuire la qualifica di imprenditore commerciale, occorre aver riguardo all’obiettiva idoneità dell’attività a produrre un profitto, ma non è necessario che detto profitto si valuti in denaro, essendo sufficiente il conseguimento di qualsiasi altra utilità economica.
In buona sostanza, deve ritenersi che non va esclusa la natura imprenditoriale di un’attività quando il profitto conseguito venga capitalizzato, in tutto o in parte o nella massima parte, in beni anziché in denaro, ovvero quando il contribuente non converta in denaro le entrate, bensì le trattenga presso di sé, per così dire in natura (“beni rifugio”).
Conseguentemente, i giudici di legittimità hanno ritenuto che, anche se la costituzione dei “beni rifugio” non prevedeva un utile, "tale fine non escludeva la natura imprenditoriale dell’attività svolta".

D’altra parte, prosegue la Corte, "l’economicità dell’attività prestata dall’imprenditore, secondo il disposto dell’articolo 2082 cc, è da intendersi come il tendenziale perseguimento del “pareggio” fra costi e ricavi, non inerendo alla qualifica di imprenditore l’esercizio di attività allo scopo di produrre ricavi eccedenti i costi".
Infatti, "se un operatore economico acquista una certa quantità di beni ad un certo prezzo e poi recupera quanto speso attraverso la rivendita di una parte di beni acquistati, i beni che così rimangono nelle sue mani costituiscono un’entrata attribuibile al contribuente stesso (…) anche se il contribuente non monetizza simile entrata ma la trattiene presso di sé, per così dire, in natura".

Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, la Suprema corte, posto che il contribuente non aveva prodotto alcun documento in senso contrario e constatata la regolarità sistematicità e ripetitività della pluralità degli atti economici posti in essere, ha ritenuto legittimo il recupero effettuato dall’ufficio.
URL: https://www.fiscooggi.it/rubrica/giurisprudenza/articolo/conseguimento-del-profitto-qualifica-natura-commerciale