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Giurisprudenza

La contabilità formalmente corretta
non stoppa l’accertamento induttivo

Di norma, per preparare una tazzina di buon caffè al bar sono sufficienti, tenendo conto degli sfridi, 8 grammi di polvere; per quantitativi maggiori, occorre produrre la prova contraria

Il comportamento antieconomico dell’imprenditore può far desumere la sostanziale e complessiva inattendibilità delle scritture contabili perché contrarie a criteri di ragionevolezza. Tale condotta legittima il ricorso, da parte dell’Amministrazione finanziaria, all’accertamento del reddito d’impresa con metodo analitico-induttivo, anche sulla base di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti, a cui il contribuente può opporsi fornendo prova dell’infondatezza della ricostruzione operata dall’ufficio.
Sono questi i principi contenuti nell’ordinanza della Corte di cassazione n. 21130 depositata il 24 agosto 2018.
 
I fatti
La vicenda processuale vede coinvolto un contribuente esercente l’attività di vendita e somministrazione di caffè, avverso cui l’Agenzia delle entrate aveva notificato un avviso di accertamento recante la determinazione induttiva di un ammontare di ricavi maggiore rispetto al dichiarato.
A parere dell’ufficio, le scritture contabili, seppur formalmente corrette, risultavano inattendibili sulla scorta di una serie di elementi presuntivi dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, da cui presumere l’esistenza di attività non dichiarate.
 
Il contribuente impugnava l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, che lo accoglieva, con sentenza parzialmente riformata dai giudici d’appello.
A parere dei giudici della Ctr, infatti, l’accertamento era da ritenersi legittimo in considerazione della sostanziale inattendibilità delle scritture contabili, desumibile dagli elementi presuntivi indicati dall’ufficio e consistenti:
  • nel corretto calcolo della quantità di prodotto necessaria per ogni tazzina di caffè venduta che, al netto dello sfrido, era stata fissata in 8 grammi, quando normalmente sono considerati 6,5-7 grammi
  • nell’aver tenuto debitamente conto dell’ubicazione dell’esercizio commerciale, situato in una zona con un’alta concentrazione di esercizi similari
  • nell’aver escluso dal calcolo, con un metodo certamene favorevole al contribuente, il caffè necessario per la preparazione di cappuccini e quello venduto direttamente in confezione ai clienti.
L’unico aggiustamento disposto dai giudici d’appello aveva riguardato la percentuale di ricarico al costo del venduto applicata dall’ufficio ai prodotti diversi dal caffè in misura eccessiva, da cui era scaturito un abbattimento parziale del reddito accertato.

Il contribuente ha proposto ricorso avverso la decisione di secondo grado deducendo, in via principale, violazione del disposto di cui agli articoli 39 e 42 del Dpr 600/1973, perché la Ctr non avrebbe tenuto conto del fatto che, in presenza di scritture contabili regolari, “l’Ufficio non aveva dedotto presunzioni gravi, precise e concordanti, tali non essendo la percentuale di ricarico applicata sui prodotti, sicché l’avviso di accertamento induttivo era illegittimo”.
Con un ulteriore motivo il contribuente ha contestato la decisione della Ctr nel punto in cui i giudici avevano diminuito la quantità di caffè necessaria per ogni tazzina venduta, non motivando in alcun modo tale abbattimento e procedendo alla determinazione di un reddito accertato sulla base di criteri meramente equitativi.
 
La Corte di cassazione ha ritenuto infondati i motivi di ricorso e ha confermato la legittimità della sentenza impugnata, condannando il contribuente a rifondere all’Agenzia delle entrate anche le spese processuali.
 
La decisione
La controversia ruota attorno alla corretta interpretazione delle disposizioni contenute nell’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, in materia di accertamento “analitico-induttivo” previsto nel caso in cui, a prescindere dalla correttezza formale delle scritture contabili, l’ufficio rilevi una (seppur parziale) incompletezza, inesattezza e falsità degli elementi indicati nella contabilità.
In questa ipotesi, è legittimo procedere alla rettifica del reddito d’impresa dichiarato dal contribuente desumendo “l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate … anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”.
 
In merito al potere dell’Amministrazione finanziaria di procedere all’accertamento analitico-induttivo, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, è oramai principio consolidato in giurisprudenza che la regolarità “formale” della contabilità non costituisce un ostacolo a tale metodologia di accertamento del reddito d’'impresa a condizione, però, che detta contabilità possa considerarsi “complessivamente e sostanzialmente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento dei contribuente” (fra tutte, cfr Cassazione, 6951/2017).
In tale ipotesi, l’ufficio può legittimamente mettere in discussione la veridicità e la correttezza delle risultanze dichiarate dal contribuente e procedere alla determinazione di una maggior pretesa impositiva, ai fini delle imposte dirette e Iva, anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.
 
Nel caso di specie, la Ctr ha ritenuto sussistere i requisiti di gravità, precisione e concordanza con riferimento agli elementi presuntivi addotti dall’Amministrazione finanziaria a sostegno della propria pretesa, a fronte dei quali il contribuente non aveva ottemperato all’onere di fornire prova contraria, in particolare, circa la quantità di polvere da caffè considerata necessaria per la preparazione di una tazzina di bevanda.
 
In merito all’individuazione del corretto perimetro dell’onere probatorio, la Corte di cassazione ha precisato che il contribuente non è tenuto a censurare la decisione del giudice tributario nel punto in cui ha ritenuto che gli elementi forniti dall’ufficio a sostegno della maggior pretesa impositiva costituissero “presunzioni gravi precise e concordanti”, dovendosi limitare a fornire prova dell’infondatezza della ricostruzione operata dall’ufficio sulla base di tali elementi.
È il giudice di merito, infatti, che deve valutare gli elementi presuntivi, “singolarmente e complessivamente”, rendendo noto nelle motivazioni i risultati del proprio iter logico-giuridico “e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza nel senso precisato, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli articoli 2727 e ss. e 2697, secondo comma, cod. civ.”.
 
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