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Giurisprudenza

Un contratto di sponsorizzazione
deve accrescere il volume d’affari

Si considera pubblicità, ed è quindi integralmente deducibile, solo se il contribuente prova che all’attività sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale

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Ai fini della deducibilità delle spese relative a un contratto di sponsorizzazione, il contribuente ha l’onere di dimostrare la congruità dei costi in rapporto all’attività caratteristica e al volume d’affari legato all’attività di sponsor e l’inerenza delle spese in termini di concreto vantaggio che la società avrebbe ritratto in termini di allargamento della clientela e di incremento dei ricavi.
E inoltre, le spese di sponsorizzazione devono ritenersi spese di rappresentanza, e non di pubblicità, se la società non dimostra, altresì, che i costi sostenuti hanno il fine diretto di incrementare le vendite e la clientela e non di accrescerne genericamente il prestigio.
Questo il contenuto della sentenza n. 10914 emessa dalla Corte di cassazione il 27 maggio 2015.
 
Il fatto
Sulla scorta delle risultanze di una verifica fiscale, l’Agenzia delle Entrate ha notificato a una società produttrice di manufatti in vetroresina, diretti ai mercati internazionali, un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, avente a oggetto la ripresa a tassazione di costi afferenti alla sponsorizzazione di eventi locali di natura fieristica e sportiva.
A parere dell’ufficio accertatore, le spese sostenute dalla società non erano qualificabili come spese di pubblicità (integralmente deducibili dal reddito imponibile) bensì come spese di rappresentanza, deducibili nei limiti di un terzo del loro ammontare, ai sensi dell’articolo 74, comma 2, del Tuir vigente ratione temporis.
 
Il ricorso della società ha trovato accoglimento sia in sede del primo sia in sede del secondo grado di merito.
A parere dei giudici della Ctr, l’operato della società era legittimo, in quanto il concetto di spesa di pubblicità comprende anche i costi che, pur non essendo sostenuti al fine diretto di incrementare le vendite, sono in grado di “far acquisire all’impresa nuova clientela o di ampliare il fatturato nei confronti della clientela già esistente”.
 
Il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, affidato a quattro motivi di doglianza, è stato accolto dai giudici della suprema Corte, che hanno cassato la decisione impugnata, rinviando la causa a sezione diversa della competente Commissione tributaria regionale.
 
La decisione
In tema di deducibilità delle spese di pubblicità e di rappresentanza, il comma 2 dell’articolo 74 del Tuir (nella versione vigente all’epoca dei fatti, oggi articolo 108) prevedeva, per le prime, la deducibilità integrale dal reddito imponibile nell’esercizio di sostenimento o in quote costanti in cinque esercizi.
Diversamente, le spese di rappresentanza erano ammesse in deduzione “nella misura di un terzo del loro ammontare” nell’esercizio di sostenimento o in quote costanti in cinque esercizi.
 
Attualmente, il trattamento delle spese di rappresentanza è disciplinato dal comma 2 dell’articolo 108 del Tuir, che ne condiziona la deducibilità nel periodo d’imposta di sostenimento “se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, del volume dei ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa e dell’attività internazionale dell’impresa”.
Nel caso di specie, la questione dirimente attiene la corretta qualificazione dei costi in esame, da inquadrare come spese di pubblicità o spese di rappresentanza.
 
L’Agenzia delle Entrate ha contestato l’affermazione del giudice di merito in due punti.
Nel primo, in cui la commissione ha affermato che il concetto di pubblicità comprende tutti quei costi che, anche in prospettiva, appaiono in grado di comportare un incremento del volume d’affari aziendale; nel secondo, in cui è stato dichiarato che tali costi non sono sindacabili dall’Amministrazione finanziaria in sede di controllo, perché attengono la sfera delle scelte compiute liberamente dall’imprenditore.
 
I giudici della suprema Corte hanno ritenuto fondati i motivi di doglianza addotti dall’Agenzia delle Entrate, riprendendo un concetto oramai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per cui “il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi, atteso che costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite (16812/14; 15318/14; 15183/14)”.
 
Oltre a ciò, i giudici hanno fissato un ulteriore importante principio, in ragione del quale le spese – intese genericamente come “di sponsorizzazione” – costituiscono spese di rappresentanza, deducibili parzialmente, ai sensi del vecchio articolo 74 del Tuir (oggi superato nella sostanza dall’articolo 108), “ove il contribuente non provi che all’attività sponsorizzata sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale (27482/14; 14252/14; 3433/12)”.
 
La sentenza in commento contiene anche una precisazione in tema di onere della prova, che parte dal presupposto, oramai consolidato, che l’onere della prova – in caso di costi e oneri dedotti dal reddito imponibile – incombe sul contribuente che ne ha tenuto conto nella propria dichiarazione.
Nello specifico, la Cassazione ha precisato che la deducibilità delle spese relative a un contratto di sponsorizzazione è condizionata alla dimostrazione, posta a carico del contribuente, “del requisito dell’inerenza, consistente non solo nella giustificazione della congruità dei costi, rispetto ai ricavi o all’oggetto sociale, ma soprattutto nell’allegazione delle potenziali utilità per la propria attività commerciale o dei futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa in favore del terzo (24065/11)”.
 
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato l’integrale deduzione dei costi di sponsorizzazione, perché l’impresa non aveva fornito la prova dell’inerenza delle iniziative finanziate, di carattere prettamente locale, a fronte dell’attività commerciale rivolta prevalentemente ai mercati internazionali.
Avallando la posizione dell’Amministrazione finanziaria, i giudici di legittimità hanno sancito che la società non ha ottemperato all’onere di dimostrare, non solo la congruità dei costi in rapporto all’attività caratteristica e al volume d’affari, ma anche la loro idoneità ad ampliare le prospettive di crescita, in termini di allargamento della clientela e di incremento di ricavi, nell’ambito territoriale che aveva beneficiato dell’attività di sponsorizzazione.
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