La sentenza pubblicata oggi, a definizione del procedimento C-291/2007, ripropone la questione della corretta interpretazione dell'articolo 9 della sesta direttiva. Tale disposizione, com'è noto, risulta di particolare complessità considerata la ratio sottesa alla norma in questione e consistente nel fornire criteri, generali e specifici, per il corretto esercizio della potestà impositiva nei casi in cui essa coinvolga più Stati.
Territorialità e doppia imposizione
L'esigenza di fissare delle regole per stabilire la "territorialità" delle prestazioni di servizi (di per sé, più difficilmente tracciabili rispetto alle cessioni di beni, eccezion fatta per quelle virtuali) si radica nell'opportunità di arginare il più possibile fenomeni di doppia imposizione o di saltum nell'assoggettamento ad imposta. Soccorre, a tal fine, il citato articolo 9 mediante la fissazione, accanto al criterio di cui al n. 1 basato sulla residenza del prestatore, di una distinta serie di parametri che considerano determinanti per la individuazione della potestà impositiva, per esempio, il luogo di esecuzione della prestazione o di residenza del destinatario della stessa. Tra tali principi sussiste solo un rapporto di alternatività: ciò significa, come più volte chiarito la Corte di Giustizia, che "le regole che determinano il luogo di collegamento fiscale delle prestazioni di servizi non hanno tra loro alcun carattere di preminenza". Ne consegue che i criteri specifici fissati dal n. 2 dell'articolo 9 della sesta direttiva, non avendo carattere derogatorio ed eccezionale rispetto al più generale criterio della residenza del prestatore stabilito dal comma 1, non devono essere interpretati restrittivamente.
L'origine della controversia
Oggetto della questione in esame è la valutazione dell'applicabilità delle disposizioni contenute all'articolo 9, n. 2, lett. e) della sesta direttiva che fissa il luogo di imposizione nello Stato di residenza del fruitore della prestazione per una serie di servizi, tra cui le prestazioni di consulenza anche quando i servizi in oggetto siano acquistati per lo svolgimento di un'attività non avente, strictu sensu, carattere economico. La controversia insorta riguarda una fondazione svedese istituita, grazie all'accordo concluso tra le federazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, per sostenere e orientare i lavoratori passibili di licenziamento. In pratica l'attività di tale fondazione (in prosieguo, la TRR) consiste nella promozione di misure atte a favorire la riconversione dei lavoratori e nel prestare assistenza alle imprese che siano incorse o possano incorrere in situazioni di eccedenza di personale. Tali attività vengono finanziate attraverso contributi stornati dalle buste paga dei lavoratori aderenti all'accordo predetto. Accanto a tali attività, la Trr è impegnata in un distinto settore, a carattere decisamente imprenditoriale ma di rilevanza marginale rispetto all'attività "statutaria", consistente nella esternalizzazione di servizi di consulenza alle imprese. . Nell'espletamento della propria attività istituzionale, la Trr ha fatto ricorso a prestazioni di consulenza rese da un operatore residente in Danimarca.
Le obiezioni mosse dalla fondazione svedese
Poiché le prestazioni in oggetto erano destinate ad essere utilizzate esclusivamente per le attività proprie della Fondazione in relazione alle quali la Trr non opera come soggetto passivo ai fini Iva, la Trr ha disconosciuto la possibilità di figurare, per le prestazioni di consulenza in oggetto rese in suo favore da un soggetto residente in altro Stato membro, come responsabile di imposta, secondo quanto invece previsto dal dettato dell'articolo 9, n.2, lett.e) della sesta direttiva. In particolare la TRR oppone che le prestazioni di consulenza commissionate al professionista danese attengono ad una sfera di attività nella quale essa non opera come "soggetto passivo" stante l'assenza di una connotazione imprenditoriale dell'attività rivolta essenzialmente al servizio dei lavoratori a rischio.
La posizione della Corte
La questione insorta è stata sottoposta al vaglio della Corte di Giustizia per stabilire se, nel caso in cui le prestazioni di servizi commissionate attengano ad una sfera di attività che non rileva ai fini i.v.a., la disposizione dell'articolo 9, n. 2, lett.e) della sesta direttiva risulti comunque applicabile. I giudici comunitari, muovendo dal dato letterale dell'articolo 9, n. 2, lett.e), rilevano che l'applicabilità di siffatta disposizione non è subordinata alla circostanza che i servizi acquistati dal committente debbano essere necessariamente destinati all'esercizio di un'attività economicamente apprezzabile ai fini Iva. Se è vero che alcune disposizioni della sesta direttiva, quali l'articolo 2 e l'articolo 17, richiedono espressamente, affinché le operazioni poste in essere assumano rilevanza ai fini Iva, che le attività siano riconducibili ad un "soggetto passivo" ai sensi della sesta direttiva, è pur vero che l'articolo 9, n. 2, lett.e) non opera tale specifico riferimento. Secondo i giudici ciò non dipende da una svista del legislatore comunitario ma dalla circostanza che, ai fini del riparto della potestà impositiva e, quindi, del luogo di prestazione dei servizi, non rileva la circostanza che il destinatario della prestazione eserciti attività che esulano dalla sfera di applicazione dell'Iva.
Le motivazioni addotte dagli eurogiudici
Una tale interpretazione risponde ad elementari esigenze di semplificazione nell'applicazione dell'imposta e, in particolare, adempie a una preminente esigenza di certezza del diritto. Difatti, se la determinazione del luogo di imposizione dovesse essere subordinata alla rilevanza Iva dell'attività esercitata dal destinatario della prestazione, si creerebbe notevole incertezza negli operatori economici che non potrebbero conoscere, con sufficiente anticipo, le conseguenza fiscali che derivano dalle attività esercitate. Pertanto, l'articolo 9, n. 2 , lett. e) della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che obbligato al versamento dell'imposta resta il destinatario della prestazione, a prescindere se i servizi acquistati attengano o meno ad un'attività rilevante ai fini Iva.
Tale interpretazione, precisa la Corte, si coniuga perfettamente con la esigenza di garantire la sicurezza nella circolazione delle merci e dei servizi in area comunitaria: cosa che costituisce uno degli scopi fondamentali della istituzione di un sistema comune Iva.