Articolo pubblicato su FiscoOggi (https://fiscooggi.it/)

Giurisprudenza

Corte Ue: le perdite si "salvano"
se la filiale estera è improduttiva

All’attenzione dei togati comunitari la normativa societaria danese, in un caso di determinazione del reddito della stabile organizzazione situata fuori dai confini nazionali

La Corte di giustizia ha ritenuto contraria al principio della parità di trattamento la normativa danese che impedisce alla società, che possiede una stabile organizzazione estera, di dedurre le perdite in Danimarca, una volta che la filiale estera abbia cessato l'attività. Una facoltà, invece, riconosciuta qualora la stabile organizzazione sia posta nello Stato danese.
 
I fatti in causa
Al centro della controversia vi era una società danese, che produceva piattaforme per camion, rimorchi e apparecchiature accessorie.
Nell'esercizio 2009, la filiale finlandese, cessata la propria attività, si trovava nella condizione di non poter riportare a nuovo le sue perdite in Finlandia: pertanto, la società danese chiedeva di dedurre tali perdite dalla base imponibile dell’imposta sulle società in Danimarca.
 
La posizione del fisco danese
L’amministrazione danese negava detta deduzione, poiché la legge relativa all’imposta sulle società non consentiva di includere nella base imponibile né gli utili né le spese di una filiale stabilita in un paese estero, salvo nel caso in cui la società avesse optato per il regime di imposizione congiunta internazionale.
 
Il contenzioso nazionale
La compagine danese impugnava, quindi, la suddetta decisione dinanzi alla Corte regionale dell’Est, sostenendo che la deduzione richiesta sarebbe stata concessa se le perdite fossero state subite da una filiale danese e che, pertanto, tale disparità di trattamento costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento, garantita dall’articolo 49 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
 
La questione pregiudiziale
La Corte, pertanto, sospeso il procedimento, ha proposto ai giudici europei la seguente questione pregiudiziale:
  • se l’articolo 49 Tfue osti a un regime di imposizione nazionale, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, ai sensi del quale è possibile dedurre le perdite delle succursali nazionali, mentre non è possibile dedurre quelle delle succursali situate in altri Stati membri, a meno che il gruppo non abbia scelto l’imposizione congiunta internazionale, secondo le condizioni di cui al procedimento principale. 
La risposta della Corte di giustizia
Gli eurogiudici premettono che la libertà di stabilimento, ai sensi dell'articolo 49 Tfue, riconosce alle società dell'Unione il diritto di esercitare la loro attività in altri Stati membri mediante una controllata, una succursale o un'agenzia, e ciò non può essere ostacolato dalla legislazione nazionale.
Una disposizione che consente di prendere in considerazione la perdita di una stabile organizzazione ai fini della determinazione del reddito imponibile della società a cui appartiene tale stabilimento – continua la Corte – costituisce un vantaggio fiscale.
Una legislazione nazionale, precludendo la possibilità di dedurre le perdite solo quando provengano da una stabile organizzazione situata nello Stato membro della società residente, potrebbe dissuadere quest'ultima dall'operare attraverso una stabile organizzazione in un altro Stato membro.
E una differenza di trattamento, come quella citata, potrebbe sussistere solo in ipotesi eccezionali, ossia se si trattasse di situazioni non oggettivamente paragonabili o se fosse giustificata da motivi imperativi di interesse generale e proporzionati a tale obiettivo.
 
Normativa danese e disparità di trattamento
Circa l'analisi della normativa nazionale danese, i togati comunitari si interrogano se questa stabilisca o meno una differenza di trattamento tra le società danesi che hanno una stabile organizzazione nel Paese d’origine e quelle la cui stabile organizzazione si trova in un altro Stato membro.
In proposito, il governo danese aveva osservato che esisteva un regime facoltativo – quello di imposizione congiunta internazionale – a cui la società avrebbe potuto aderire, che avrebbe permesso alla società nazionale di detrarre dal proprio reddito imponibile in Danimarca le perdite subite dalla sua stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, analogamente al caso in cui le perdite fossero state subite da una propria stabile organizzazione in Danimarca.
Tuttavia, osserva la Corte, il beneficio dell'integrazione fiscale internazionale è soggetto a due condizioni che rappresentano forti vincoli: da un lato, presuppone che tutte le entrate del gruppo, provenienti da società, stabilimenti o immobili situati in Danimarca o in un altro paese, siano soggette all'imposta sulle società in tale Stato membro, dall'altro, la scelta dell'opzione è, in linea di massima, per un periodo minimo di dieci anni.
 
Da quanto precede – inferiscono i togati comunitari – risulta che la legge sull'imposta sulle società introduce una disparità di trattamento tra le società danesi che hanno una stabile organizzazione in Danimarca e quelle la cui stabile organizzazione è situata in un altro Stato membro.
 
Stabili organizzazioni nazionali ed estere
La Corte focalizza, quindi, la sua attenzione sulla comparabilità delle situazioni, oggetto del differente trattamento, che devono essere valutate alla luce dell'obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali in questione.
Nel caso di specie, proseguono gli eurogiudici, l'articolo 8, paragrafo 2, della legge nazionale sull'imposta sulle società esclude dal reddito imponibile danese gli utili e le perdite attribuibili a una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, a meno che la società in questione non abbia optato per il richiamato sistema di consolidamento fiscale internazionale. 
Questa legislazione mira a prevenire la doppia imposizione degli utili e, simmetricamente, la doppia deduzione delle perdite delle società danesi che detengono tali stabili organizzazioni. È, quindi, la situazione di queste società che deve essere confrontata con quella delle società danesi con stabili organizzazioni in Danimarca.
Orbene, la Corte osserva che il caso della società danese, alla quale viene preclusa la deduzione delle perdite della filiale estera, non è diverso da quello di una società residente che detiene una stabile organizzazione residente, in considerazione dell'obiettivo di impedire la doppia deduzione delle perdite.
Difatti, la capacità contributiva di una società che detiene una stabile organizzazione non residente che ha subito perdite definitive è pregiudicata allo stesso modo di una società la cui stabile organizzazione residente ha subito perdite. 
In sostanza – conclude la Corte sul punto – la disparità di trattamento di cui trattasi nella causa principale riguarda situazioni obiettivamente comparabili.
 
Le giustificazioni dello Stato nazionale
Il Regno di Danimarca – osserva la Corte – sostiene che tale disparità di trattamento può essere giustificata, in primo luogo, dal mantenimento di una distribuzione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri, e, inoltre, dalla necessità di garantire la coerenza del sistema fiscale.
L'obiettivo delle disposizioni nazionali, in particolare, è quello di garantire l'adeguatezza dell'imposizione di una società, che detiene una stabile organizzazione non residente, con la capacità contributiva del contribuente, oltre che di evitare il rischio di doppio uso delle perdite, ostacolo alla libertà di stabilimento.
 
(S)proporzione della legislazione danese
La Corte di giustizia Ue, infine, si sposta a considerare se la misura adottata sia proporzionata.
In proposito, è dirimente l'osservazione che, nel caso di specie, quando cioè non vi è più alcuna possibilità di dedurre le perdite della stabile organizzazione non residente nello Stato membro in cui si trova, il rischio di doppia deduzione delle perdite non esiste.
In definitiva, anche alla luce di rilevante giurisprudenza comunitaria, il carattere definitivo delle perdite subite da una controllata non residente può essere determinato solo se non riceve più entrate nello Stato membro di residenza. Infatti, finché questa filiale continua a raccogliere anche piccole quantità di entrate, permane la possibilità che le perdite sostenute possano ancora essere compensate dagli utili futuri conseguiti nello Stato membro in cui risiede.
Ed è il giudice nazionale – concludono i togati comunitari – a dover valutare se tali condizioni siano soddisfatte nel caso in questione.
 
Conclusioni
L'articolo 49 Tfue deve essere interpretato nel senso che osta a una legislazione di uno Stato membro che esclude la possibilità per una società residente, che non ha optato per un regime di integrazione fiscale internazionale come quello di cui alla causa principale, di dedurre dalla sua base imponibile le perdite di una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, se, da un lato, tale società ha esaurito tutte le possibilità di deduzione delle perdite che essa ha il diritto di chiedere dello Stato membro in cui è situato lo stabilimento e, dall'altro, ha cessato di raccogliere eventuali entrate da quest'ultimo, in modo che non sia più possibile tener conto di tali perdite in quello Stato membro, circostanza che è compito del giudice nazionale verificare.
 
Fonte:
Data della sentenza
12 giugno 2018  

Numero della causa
Causa C-650/2017

Nome delle parti
A/S Bevola e Jens W. Trock ApS;
contro
Skatteministeriet
URL: https://www.fiscooggi.it/rubrica/giurisprudenza/articolo/corte-ue-perdite-si-salvano-se-filiale-estera-e-improduttiva