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Giurisprudenza

Costi deducibili per la casa di moda,
al contribuente l’onere della prova

Valido l’accertamento induttivo Ires, Irap e Iva in assenza dei documenti comprovanti che i “costi di stilismo” erano finalizzati alla presentazione della collezione annuale

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Il fenomeno della esterovestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento e consente di recuperare a tassazione nello Stato italiano, dove è stata individuata la sede effettiva della società lussemburghese, i costi di stilismo, non deducibili in mancanza di prova dei relativi fatti costitutivi.
Lo ha chiarito la Cassazione, con  l’ordinanza n. 15424 del 3 giugno 2021.

I fatti
A seguito di una verifica fiscale alla proprietaria di un noto marchio di moda, l’ufficio ha accertato induttivamente Ires, Irap e Iva per i periodi d'imposta 2006 e 2007, ritenendo che la società, pur avendo la sede legale in Lussemburgo, avesse la sede dell'amministrazione e l'oggetto principale nel territorio dello Stato italiano e, quindi, fosse soggetta a imposizione in Italia. La società ha impugnato gli avvisi e i giudici di merito ne hanno rigettato il ricorso e l’appello, riscontrando il controllo puntuale e approfondito che l’ufficio aveva effettuato in relazione alla complessa situazione del gruppo del quale la società era parte.
In particolare la Ctr, dopo aver posto in luce che l’esterovestizione costituiva il punto fondamentale della controversia, ha osservato che si svolgevano principalmente in Italia le trasformazioni societarie, i passaggi quote di partecipazione, le sovrapposizioni degli amministratori, tutti italiani ad eccezione di uno, nei consigli di amministrazione della controllante e della controllata e le attività d’impresa, comprese quelle bancarie. Inoltre, con riferimento alla determinazione del reddito imponibile ai fini Ires e Irap, il giudice d’appello ha ribadito l’indeducibilità dei “costi di stilismo” in quanto l’ammontare dedotto,  corrispondendo a un decimo del valore complessivo della consulenza, poteva essere riconducibile alla quota di ammortamento decennale del costo di acquisto del marchio, e ha rilevato la tardività e l’infondatezza delle deduzioni della contribuente che, solo in tale grado di giudizio, aveva esternato una serie di riflessioni a sostegno della deducibilità totale, affermando che non si trattava di spese afferenti l’acquisto del marchio da un proprietario indiretto nonostante la coincidenza della quota dedotta con la quota ammortizzata.

La società ha proposto ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro:

  • violazione dell’articolo 73, commi 5-bis e 5-ter, Tuir e degli articoli 49 e 55, Tfue:
    1. sia per plurime ragioni relative alle «prove della asserita esterovestizione» (le email inviate e/o ricevute, in prevalenza dai presunti amministratori di fatto si riferivano a esercizi sociali successivi a quelli contestati, e dunque, privi di valenza dimostrativa in relazione alla localizzazione territoriale dei processi societari vissuti; l’indirizzo dichiarato dalla contribuente per le comunicazioni afferenti il marchio presso una società italiana, risultante dal registro europeo, era coincidente con quello di una srl che gestiva la linea di abbigliamento con lo stesso marchio e, inoltre, risultava variato a seguito della stipula del contratto di “Master-licence”; la tesi che collegava lo svolgimento dell’attività effettiva in Italia alla stipula di plurimi contratti, con altrettante società diverse di diritto italiano, aventi, a loro volta, come oggetto sociale, la commercializzazione di diverse tipologie di prodotto, confondeva l'oggetto dell'attività d’impresa propria della società lussemburghese con l'oggetto della attività di impresa proprio, di volta in volta, delle singole società americane, cinesi o italiane, partner commerciali del proprietario del marchio), oltre che per più semplici ragioni logiche (limitandosi la contribuente, nei fatti, ad "amministrare" il patrimonio di diritti immateriali posseduti e, quindi, almeno prevalentemente, a "incassare" periodicamente le royalties a lei dovute dai concessionari nazionali sparsi per il mondo, tale attività operativa, strutturalmente minima, non richiedeva la disponibilità di strutture organizzative e/o amministrative costose, né si poteva dedurre, dalla sua struttura snella, una residenza sostanziale in Italia)
    2. sia in relazione alla verifica della sussistenza del controllo ex comma 5-bis e ter, non avendo gli amministratori fatto parte del Consiglio alla data di chiusura dell'esercizio del soggetto estero controllato
    3. sia riguardo la restrizione alla libertà di stabilimento e la discriminazione posta dalla presunzione di residenza fiscale, se fondata sulla residenza dei soci o degli amministratori
  • violazione degli articoli 83 seguenti del Tuir, per avere la Ctr affermato l'indeducibilità dei costi risultanti da due fatture emesse per «consulenza e assistenza stilistica per competenza 2006», nonostante gli stessi, relativi a "costi di stilismo" siano caratterizzati da un’utilità che si esaurisce nell'anno.

La Corte ha rigettato il ricorso e ha affermato che «la nozione di ‘sede dell'amministrazione’…, in quanto contrapposta alla ‘sede legale’, deve ritenersi coincidente con quella di ‘sede effettiva’ (di matrice civilistica), intesa come il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento - nei rapporti interni e con i terzi - degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente…»(Cassazione, n. 15424/2021).

Osservazioni
I giudici di legittimità hanno respinto sia il motivo di ricorso relativo all’esterovestizione, sia quello relativo alla deducibilità dei costi di consulenza stilistica.
Con riferimento al primo, l’ordinanza presenta tre piani di lettura: prima l’esame del fenomeno alla luce dei principi generali di legittimità, poi i rapporti con la libertà di stabilimento e la possibilità di porre limitazioni interne alla luce della giurisprudenza unionale e, infine, il richiamo alla disciplina nazionale e pattizia in materia di residenza fiscale delle società.
La Corte, quindi, ha precisato che, per suo costante orientamento, il termine “esterovestizione” è stato utilizzato per descrivere il fenomeno della fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all'estero, in particolare, in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale (Cassazione, n. 2869/2013, n. 33234/2018, n. 16697/2019, n. 6476/2021 n. 11036/2021, n. 41947/2014).  

Il fenomeno si interseca con la “libertà di stabilimento” e cioè con la possibilità, per un cittadino di uno Stato membro, di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di tale Stato diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio. Tale libertà può essere limitata con una misura nazionale solo in presenza di costruzioni di "puro artificio", finalizzate ad eludere la normativa dello stato membro interessato, non ravvisabili nella circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa (sentenza 12 settembre 2006, C-196/2004).
Di conseguenza, solo a seguito di  una disamina della singola operazione concreta (Corte di giustizia Ue, sentenza 7 settembre 2017, C-6/2016), può essere giustificata una restrizione di tale libertà per motivi di lotta a pratiche abusive e la misura adottata deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni prive di effettività economica e finalizzate a eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolta sul territorio nazionale (Cassazione, n. 2869/2013) ovvero a ottenere, come risultato, un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito dalle norme (Corte di giustizia Ue, sentenza 17dicembre 2015, in C-419/2014).
La Corte ha proseguito sul piano interno, chiarendo che i criteri per individuare la residenza fiscale di una società sono stabiliti dall'articolo 73, comma 3, Tuir (“ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato») e dalla tie-breaker rule  posta dall’articolo 4, Convenzione tra Italia e Lussemburgo, ratificata e resa esecutiva dalla legge n. 747/1982 («l'espressione residente di uno Stato contraente designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga»  - criterio principale, paragrafo 1,  e, «quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato contraente in cui si trova la sede della sua direzione effettiva” per le persone giuridiche, criterio sussidiario, paragrafo 3).

Confrontando le due discipline, interna e pattizia, la Corte ha rilevato che sono sostanzialmente equivalenti, atteso che la seconda rinvia, come criterio generale, alla legislazione interna e assume, poi, come criterio sussidiario nel caso di accertata doppia residenza, quello della sede «effettiva» della società.
Quest’ultimo rappresenta il criterio decisivo anche per la norma interna sulla base della quale la nozione di «sede dell'amministrazione» coincide con quella di «sede effettiva» (Cassazione, sentenze n. 3604/1984, n. 5359/1988, n. 497/1997, 7037/2004, 6021/2009, 2813/2014).
Tale interpretazione risulta conforme all’analogo principio affermato sia dalla Cassazione, con specifico riferimento all'articolo 73, comma 3, Tuir (Cassazione, n. 7080/2012, n. 32091/2013, n. 50151/2018), sia  dalla Corte di giustizia Ue, in relazione  all’VIII e alla XIII direttiva Iva: la nozione di sede dell'attività economica «indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest'ultima» e, inoltre, la determinazione di tale sede implica «la presa in considerazione di un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell'amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Possono essere presi in considerazione anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie» (sentenza 28 giugno 2007, C-73/2006).

Nella fattispecie al suo esame, la Cassazione ha ritenuto corretta in diritto la sentenza impugnata dalla società in quanto, dopo avere menzionato gli elementi probatori acquisiti al giudizio, ha assimilato il concetto (fiscale) di «sede dell'amministrazione» - ex articolo 73, comma 3, Tuir (con riferimento alla tassazione in Italia dei redditi di una società, deve tenersi conto o della sede legale, o della sede dell'amministrazione oppure del luogo di svolgimento dell'oggetto principale, essendo sufficiente, perché  il soggetto possa essere considerato residente ai fini fiscali, che nello Stato si localizzi uno solo degli elementi alternativi indicati) - a quello (civilistico) di sede effettiva della società, intendendo quest'ultima come il luogo in cui si svolge in concreto la gestione e la direzione dell'attività d'impresa.  
Di conseguenza, riguardo alle singole doglianze, i giudici di piazza Cavour hanno affermato che:

  1. le contestazioni in materia di prova, da un lato, erano rivolte direttamente contro gli elementi addotti «dai verificatori» e non, invece, come necessario, contro le statuizioni della sentenza impugnata; dall'altro lato, per come formulate, apparivano mirare a una generale rivalutazione degli stessi elementi acquisiti al giudizio, nella prospettiva di una rivisitazione dell'accertamento di fatto compiuto dalla Ctr, preclusa nel giudizio di legittimità
  2. risultava del tutto estranea alla ratio decidendi della sentenza impugnata la presunzione di esistenza nel territorio dello Stato della sede dell'amministrazione (articolo 73, comma 5-bis e 5-ter, Tuir), avendo ritenuto la Ctr, ex articolo 73, comma 3 Tuir (e non sulla base della presunzione ex comma 5-bis e ter) che la società avesse la sede amministrativa nel territorio italiano per la ragione che «l'attività effettiva e di direzione viene svolta in Italia»
  3. il contrasto degli stessi comma 5-bis e 5-ter con gli articoli .49 e 55 Tfue era del tutto privo di rilevanza in quanto la Ctr non aveva fatto applicazione di tali commi, non ponendosi in contrasto, nella fattispecie, l’esterovestizione con la libertà di stabilimento.

Infine, con riferimento all’accertamento delle imposte sui redditi e alla determinazione del reddito d'impresa, la Cassazione ha osservato che la società doveva considerarsi residente in Italia e non stabile organizzazione (con la conseguenza che non era applicabile la disciplina della deduzione delle spese prevista, per la «determinazione degli utili di una stabile organizzazione», dall'articolo 7, paragrafo 3, Convenzione Italia-Lussemburgo). Al riguardo, per orientamento consolidato di legittimità, l'onere della prova dei presupposti di costi e oneri deducibili che concorrono alla determinazione del reddito d'impresa, compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente (Cassazione, tra le tante, n. 4554/2010 e n. 26480/2010, n. 21184/2014 e n. 10269/2017) che è chiamato a dimostrare i "fatti costitutivi" del costo, documentandone, in particolare, l'esistenza e la natura, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione.

Onere al quale la società contribuente non ha assolto, non avendo depositato documenti o contratti diretti a supportare l’affermazione secondo la quale i cd. "costi di stilismo", costituivano spese sostenute a fronte di servizi finalizzati alla presentazione della collezione annuale e per l'organizzazione dell'intero evento mediatico/pubblicitario. La società, infatti, pur avendo affermato che tali costi erano caratterizzati da una utilità che si esauriva nell'anno e che avevano generato i ricavi di vendita realizzati nello stesso anno di imposta, tuttavia non aveva dimostrato la natura dei beni o dei servizi acquistati al fine di vedersi riconosciuta la loro integrale deducibilità.

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