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Giurisprudenza

Costi fittizi e ricavi artificiosi:
una simmetria solo apparente

La riduzione dei componenti negativi non determina alcun obbligo per l’ufficio di cercare una corrispondenza biunivoca con quelli positivi dichiarati dal contribuente

dadi
In presenza di fatture inesistenti nella contabilità aziendale, il Fisco è legittimato a recuperare i costi fittizi, ritenendoli indeducibili, ma non è tenuto ad abbattere, per lo stesso ammontare, i ricavi dichiarati e non veritieri. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l’ordinanza 18371 dello scorso 26 ottobre.
 
I fatti
L’Agenzia delle Entrate ha notificato a una società a responsabilità limitata un avviso di accertamento per maggiori imposte dirette (anno 1991), ritenendo indeducibili i costi dichiarati dalla contribuente perché relativi a operazioni inesistenti.
In entrambi i gradi di merito, le Commissioni tributarie hanno ritenuto illegittimo l’avviso. In particolare, il giudice d’appello, confermando la sentenza di primo grado, ha sostenuto che, una volta accertata l’inesistenza o l’inoperosità dei soggetti emittenti fatture d’acquisto, formalmente registrate dalla società, la ricostruzione del reddito d’impresa non poteva prescindere dalla presumibile falsità, oltre che dei costi, anche dei ricavi. Se, quindi, erano fittizi gli acquisti di merci contabilizzati, erano necessariamente fittizie le vendite delle stesse merci.
 
L’Agenzia, con unico motivo di ricorso, deducendo la violazione degli articoli 75, Tuir (ora articolo 109) e 2697 c.c., ha censurato la decisione di secondo grado sia nella parte in cui ha previsto che l’ufficio, riscontrata la fittizietà dei costi contabilizzati, avrebbe dovuto presumere la fittizietà anche dei ricavi indicati, con conseguente azzeramento dell’utile da assoggettare a tassazione, sia nella parte in cui ha ritenuto irrilevante la condotta fraudolenta della contribuente ai fini delle imposte dirette. Ha, inoltre, sostenuto che, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, è onere dalla parte contribuente (e non del Fisco) provare l’esistenza di costi deducibili, trattandosi di componenti negativi del reddito, mentre è dovere dell’ufficio dimostrare l’indeducibilità dei costi perché relativi a operazioni inesistenti, senza però che lo stesso ufficio sia tenuto a verificare la veridicità dei ricavi.
 
La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, dando “continuità all’orientamento … secondo cui, in tema di accertamento dei redditi d’impresa, non integra la violazione dell'art. 75 TUIR la circostanza che l’Ufficio si limiti a recuperare soltanto i costi fittizi, senza poi abbattere i pretesi maggiori ricavi fittiziamente dichiarati…”.
 
Osservazioni
I giudici di legittimità, dopo aver ribadito che la riduzione dei costi effettuata dall’ufficio non determina alcun obbligo per il Fisco di ricercare una corrispondenza biunivoca con i ricavi dichiarati dal contribuente e, quindi, di modificarli secondo una regola di equivalenza (diminuiti i costi di esercizio, relativi agli acquisti inesistenti, la stessa operazione di diminuzione quantitativa doveva essere effettuata anche con i falsi ricavi), hanno osservato che comunque la società non ha fornito alcuna prova diretta dell’asserita fittizietà dei ricavi.
 
Infatti, dalla rettifica in aumento del reddito del contribuente, derivante dal disconoscimento di costi afferenti a operazioni inesistenti e indebitamente dedotti, consegue, da un semplice calcolo matematico, l’incremento dell’imponibile per un importo corrispondente. In relazione a tale importo, tuttavia, l’Amministrazione finanziaria non deve operare una variazione in diminuzione di pari ammontare per i ricavi dichiarati nel medesimo periodo di imposta (Cassazione, pronuncia 8211/2011). Non lo deve fare sia perché nessuna norma lo prevede sia, soprattutto, perché modificando la dichiarazione del contribuente a suo vantaggio, gli consentirebbe di ottenere un risparmio di imposta a seguito di attività (anche penalmente) illecite (le operazioni inesistenti, appunto). In tema di reddito d’impresa e di determinazione della relativa base imponibile ai fini delle imposte sui redditi, infatti, l’articolo 75 del Tuir non pone a carico dell’Amministrazione finanziaria alcun obbligo circa l’abbattimento dei ricavi figurativamente dichiarati, collegati a costi ritenuti indeducibili in quanto riferiti a operazioni fittizie poiché, nel novero degli atti che costituiscono manifestazione del potere di accertamento, non vi sono provvedimenti finalizzati alla riduzione del debito d'imposta dichiarato dal contribuente (Cassazione, pronuncia 23859/2007).
 
A tale riguardo, la Cassazione ha fondato la propria decisione, aderendo a un orientamento consolidato (Cassazione, pronunce nn. 4224/2006, 12918/2007, 9757/2008, 12904/2008, 13950/2008) secondo il quale esiste “un principio di tipicità degli atti di accertamento, nel cui ambito, fatta eccezione per i provvedimenti adottati in via discrezionale o su richiesta di rimborso, non sono previsti provvedimenti finalizzati alla riduzione del debito d’imposta dichiarato dal contribuente…”.
La Corte riconosce, dunque, che i ricavi dichiarati dal contribuente concorrono alla determinazione del reddito d’impresa, anche se si tratta di ricavi solo in senso formale, in quanto conseguenza dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti contabilizzate dall’emittente.
 
Il fondamento di tale principio, secondo i giudici di legittimità, va individuato nell’articolo 21, comma 7, Dpr 633/1972 che esplicitamente prevede, nell’ipotesi di falsa fatturazione o di fatturazione eccedente quella reale, che l’imposta sia comunque dovuta per l’intero ammontare indicato nel documento.
Di conseguenza, tra la disciplina Iva e quella dell’imposizione diretta sussiste una sistematica interdipendenza tale da giustificare il concorso alla formazione del reddito imponibile anche dei ricavi relativi a operazioni inesistenti (Cassazione, pronuncia 12918/2007).
Il legislatore, infatti, ha inteso tutelare l’interesse dell’Erario rispetto al sistema impositivo fondato sull’autodichiarazione del contribuente, chiamando quest’ultimo a rendere noti tutti gli elementi, attivi e passivi, che concorrono a formare la base imponibile, e, quindi, a fornire tutti gli elementi sostanziali e veritieri che valgono a dimostrare l’effettivo ammontare delle sue entrate e dei correlativi esborsi.
E, a maggior ragione, l’ufficio non avrebbe potuto rettificare i ricavi fittizi visto che sul piano probatorio, nella fattispecie sottoposta all’esame della Corte, non risulta che la contribuente abbia offerto prova diretta della fittizietà dei ricavi dichiarati, correlati ai costi inesistenti. Per i giudici di legittimità, infatti, “…il nesso inferenziale ‘costi fittizi’ ‘ricavi inesistenti’ rimane, sia nella sentenza d’appello sia nel controricorso, a livello di enunciazione puramente verbalistica, priva di qualsivoglia riscontro, non solo obiettivo, ma anche puramente logico e/o circostanziale”.
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