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Giurisprudenza

Costi fittizi e ricavi inesistenti: binomio non sempre sovrapponibile

La simmetria tra le due voci non è una regola di comune esperienza, né è supportata da dati statistici

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La rettifica in aumento del reddito del contribuente, conseguente al disconoscimento di costi afferenti a operazioni inesistenti non implica, da parte dell’Amministrazione finanziaria, l’obbligo di operare una variazione in diminuzione di pari ammontare nei confronti dei ricavi dichiarati nel medesimo periodo di imposta.
 
Questo il principio di diritto desumibile dalla sentenza 8211 dell’11 aprile, della sezione tributaria della Corte di cassazione.
 
La vicenda
La controversia trae spunto dal recupero delle imposte dirette effettuato nei confronti di una ditta individuale, in relazione a costi afferenti a operazioni inesistenti.
In primo grado, la Commissione tributaria provinciale accoglieva parzialmente il ricorso ritenendo deducibili in parte i costi riportati in dichiarazione.
 
La Ctr confermava la pronuncia di prime cure.
In particolare, il collegio giudicante riteneva illogico il recupero operato dall’Amministrazione, in quanto l’ufficio, dal fatto noto concernente l’emissione da parte di altra società di fatture per operazioni inesistenti, avrebbe fatto discendere l’indeducibilità dei costi, senza però rettificare in diminuzione anche i ricavi da considerarsi, “per logico corollario”, anch’essi inesistenti.
 
Contro tale decisione, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione facendo rilevare che, a fronte dell’accertata inesistenza dei costi e dell’effettivo utilizzo in dichiarazione degli stessi, non risultava (né poteva essere) dimostrata alcuna corrispondenza tra i predetti componenti negativi e i ricavi dichiarati dall’impresa.
 
La pronuncia della Cassazione
Il Supremo collegio, accogliendo il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa, per nuovo esame, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.
Secondo la Cassazione, l’associazione “biunivoca” tra costi fittizi indebitamente dedotti dal contribuente e ricavi da questi conseguiti nel medesimo anno d’imposta, non può ritenersi corretta.
 
L’illogicità di tale ragionamento si può cogliere nella parte in cui si associa al fatto noto, rappresentato dalla inattendibilità del dato contabile dei costi, la conseguenza concernente la possibilità di rettificare tutti gli ulteriori dati contabili, compresi quindi anche i ricavi.
In questo modo si cade nell’errore di allargare, oltremodo, il ragionamento presuntivo sino al paradosso di estendere la conseguenza del predetto ragionamento oltre i limiti fissati dalla sua stessa premessa (che presuppone la rettifica dei soli costi ritenuti inattendibili).
 
Per i giudici di legittimità, la simmetria tra costi e ricavi, non troverebbe conforto neppure nella comune esperienza o nel dato statistico.
Infatti, può accadere che l’evasione fiscale sia conseguita mediante l’utilizzo di costi inesistenti collegati a ricavi effettivamente esistenti ovvero dichiarando ricavi inferiori a quelli realizzati a fronte di costi realmente sostenuti.
In conclusione, secondo la Suprema Corte, una volta accertata l’indebita deduzione dai ricavi di costi relativi a fatture per operazioni inesistenti “…consegue, per semplice calcolo matematico, l’incremento del reddito imponibile (…) per un importo corrispondente a quello indebitamente detratto…” mentre spetta al contribuente provare “…che i costi si riferivano ad operazioni effettivamente realizzate…”.

Osservazioni
Ancora una volta (cfr Cassazione 25617/2010) la Suprema corte boccia l’orientamento di talune Commissioni tributarie, che si basano sul ragionamento semplicistico secondo cui, in presenza di costi fittizi, conseguirebbero ricavi inesistenti di pari ammontare.

In verità, si tratta di componenti del reddito, attivi e passivi, non necessariamente correlati e non necessariamente sovrapponibili, neppure sotto l’aspetto quantitativo.

Molto spesso, infatti, si rappresentano situazioni in cui l’evasione viene realizzata in diversi modi che non presuppongono, inevitabilmente, l’esatta corrispondenza tra i costi e i ricavi. Come sopra accennato, infatti, potrebbero verificarsi casi in cui a costi inesistenti si contrappongono effettivi ricavi oppure, all’inverso, situazioni in cui a costi effettivamente sostenuti corrispondono ricavi dichiarati inferiori a quelli reali. Può, infine, verificarsi l’ipotesi “mista”, allorquando l’indicazione di costi fittizi sia accompagnata anche dalla indicazione di ricavi inferiori a quelli effettivamente realizzati.

Da un punto di vista quantitativo, invece, costi e ricavi non coincidono in quanto, questi ultimi, normalmente comprendono nell’ammontare anche il cosiddetto “ricarico” di vendita, ossia il margine di profitto che l’imprenditore tende a conseguire con la cessione.

Resta inteso che, in ogni caso, la prova dell’asserita inesistenza dei costi deve essere fornita dall’ufficio che procede al recupero anche attraverso presunzioni semplici, purché esse siano, secondo quanto dispone l’articolo 39, comma 1, del Dpr 600/1973, gravi, precise e concordanti.

Al contrario, graverà sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate.

A tal proposito, non sarà sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, poiché secondo la Cassazione …tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti”.
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