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Giurisprudenza

I costi fittizi occultano utili reali

E' onere del contribuente provare altre finalità del comportamento fraudolento

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Ove l'Amministrazione provveda al recupero a tassazione, ai fini delle imposte sui redditi, delle somme corrispondenti a spese inesistenti, non è tenuta a ridurre proporzionalmente il reddito lordo denunciato dalla società. E', infatti, dato di esperienza che i costi inesistenti siano di solito denunciati per occultare utili esistenti e non determinino un'artificiosa dilatazione delle entrate.
E' questa la massima della sentenza n. 4225 del 1° dicembre 2005 (depositata il 24 febbraio 2006), con cui la Suprema corte ha rigettato il ricorso di un contribuente, teso a ottenere la cassazione della sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale, che aveva avallato il comportamento dell'ufficio, limitatosi a recuperare a tassazione soltanto i costi fittizi, senza poi "abbattere" i pretesi maggiori ricavi artificiosamente dichiarati.

Il fatto
La controversia nasce dall'impugnazione di un avviso di accertamento, con il quale il competente ufficio fiscale aveva recuperato a tassazione dei costi fittizi, documentati da fatture relative a operazioni ritenute inesistenti.
Sia in primo che in secondo grado erano stati respinti i ricorsi di parte.

In sede di Cassazione, la società ricorrente eccepisce:

  • la violazione e falsa applicazione degli articoli 1, 52, e 75 del Tuir (nella vecchia formulazione, antecedente alle modifiche numeriche e normative apportate in seguito all'introduzione dell'Ires), dell'articolo 39 del Dpr n. 600/1973, degli articoli 2423 e 2423-bis del codice civile, poiché le fatture fittizie, relative ai costi inesistenti recuperati a tassazione, avevano determinato ricavi inesistenti che, in quanto tali, avrebbero dovuto essere "dedotti" dal reddito dichiarato sulla base del bilancio (in pratica, la società ricorrente lamenta che l'ufficio, avendo accertato l'esistenza di costi inesistenti, avrebbe dovuto diminuire il maggiore reddito correlato a tali costi)
  • la mancanza di motivazione in ordine al quantum del reddito accertato; in particolare il ricorrente evidenzia, da una parte, il contrasto tra le conclusioni assunte da diversi reparti della Guardia di finanza (per la polizia tributaria di Milano talune fatture erano solo in parte "gonfiate", mentre per la Guardia di finanza di Rho le medesime fatture erano totalmente false), dall'altra, la circostanza che erano state ritenute false anche fatture emesse nei confronti di società estere, per le quali il visto della dogana garantiva l'esistenza dell'operazione.

Diritto e motivi della sentenza
In ordine al primo motivo di doglianza, la Corte di cassazione ritiene la censura inammissibile e infondata, "perché dà per scontato un presupposto di fatto che, invece, non è affatto scontato e che normalmente non ricorre nella pratica dei comportamenti fiscali": l'assunto della società, è che la stessa avrebbe dichiarato ricavi inesistenti accanto ai costi inesistenti, rendendo "neutra" l'operazione relativa all'utilizzazione di fatture false ("è noto, invece, che, secondo l'esperienza comune, in materia fiscale, i costi fittizi servono ad abbattere il reddito, e quindi altre finalità possono coesistere ma devono essere dimostrate dal contribuente che se ne voglia avvantaggiare").

Ciò, però, attiene, secondo la Corte, al merito della controversia e il contribuente solo, con la rettifica della dichiarazione, poteva dimostrare l'incidenza dei costi disconosciuti dall'ufficio su una parte del reddito dichiarato (cfr. Cassazione, Sezioni unite, n. 5063/2002).
Pertanto, sostengono i giudici, non risultano violate le disposizioni di legge indicate dalla società ricorrente nel corpo del ricorso.
Infatti, la Cassazione delimita l'oggetto del contendere al contenuto dell'atto impositivo impugnato che, nel caso in esame, ha inciso soltanto sui costi e non anche sui ricavi.

Se è vero che la stessa Commissione tributaria regionale dà atto della circostanza che la società ha emesso e utilizzato fatture per operazioni inesistenti, per aumentare il prezzo dei farmaci e per consentire agli acquirenti la costituzione di fondi extrabilancio, "tale ammissione, però, non costituisce la prova che ciò sia realmente avvenuto, in quanto, in questa sede, la stessa non può assumere il valore di una confessione (che presuppone l'ammissione di un fatto a sé pregiudizievole) trattandosi dell'allegazione di un fatto attraverso il quale si intendeva dimostrare, poi (in maniera impropria in sede tributaria), l'esistenza del sinallagma tra fatture false emesse e fatture false utilizzate e, quindi, l'inesistenza del reddito dichiarato, attraverso un ampliamento illegittimo della regiudicanda".
Il principio di tipicità degli atti di accertamento non consente la riduzione del debito di imposta dichiarato dal contribuente.

In ordine alla seconda censura, circa l'omessa motivazione in ordine alla quantificazione del reddito accertato, la Cassazione afferma che il preteso contrasto tra i pvc della Guardia di finanza "non risulta prospettato per contestare la quantificazione del debito di imposta a carico della società ricorrente, ma soltanto come sviluppo degli argomenti intesi ad evidenziare che a fronte di ciascun recupero a carico di una delle società coinvolte nella triangolazioni, doveva comportare una simmetrica riduzione di imposta per le altre, nel rispetto del divieto di doppia imposizione, di cui all' art. 67 del D.P.R. n. 600/1973 e art. 127 del D.P.R. n. 917/1986".

Inoltre, su tali punti, rilevano i giudici, la parte si è limitata ad affermare l'esistenza di differenze, senza però dimostrarle con prospetti e quant'altro necessario a identificare le presunte differenze.
Né può assumere validità, a questo fine, il visto della dogana, argomento che non rileva, atteso che i controlli doganali sono obbligatori soltanto in presenza di specifici presupposti di fatto, non evidenziati nella specie (articolo 63 del Dpr 23 gennaio 1973, n. 43).

Nota
La sentenza che si annota va sulla scia di precedenti pronunciamenti (sentenze della Cassazione n. 19003 del 4 maggio 2005, depositata il 28 settembre 2005, e n. 18016 del 4 maggio 2005, depositata il 9 settembre 2005), attraverso i quali va consolidandosi il principio per cui non appare lecita la presunzione che - in ogni caso - a ricavi occulti debbano necessariamente corrispondere costi occulti.
Se è vero che questi ultimi provvedimenti giurisdizionali riguardano delle fattispecie diverse da quella in esame (le sentenze n. 19003/2005 e 18016/2005 attengono a casi in cui i maggiori ricavi sono stati presunti dalle risultanze dei controlli bancari), è altrettanto innegabile che ne richiamano altri che si soffermano - in generale - sul principio dell'onere della prova circa l'esistenza e la deducibilità dei costi.

In pratica, sembra affermarsi un principio unico, secondo cui l'onere della prova dei presupposti dei costi e oneri deducibili per la determinazione del reddito d'impresa, incombe sul contribuente, che è tenuto a provare l'esistenza e l'inerenza degli stessi secondo le consolidate regole che presiedono il reddito d'impresa (cfr. Cassazione n. 11514 del 7 settembre 2001 e n. 16918 del 27 dicembre 2001).

L'"abbattimento" di una parte dei ricavi occulti mediante la presunzione di esistenza di costi occulti, non può essere superata dal contribuente attraverso delle presunzioni semplici, ma solo dalla prova di fatti concreti.
E' suo onere indicare e provare eventuali specifici costi deducibili, non essendo possibile una determinazione equitativa del reddito, così implicitamente confermando il principio evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 225 dell'8 giugno 2005, secondo cui, in caso di accertamento induttivo, si deve tenere conto della incidenza percentuale dei costi sui maggiori ricavi accertati, attraverso una prova contraria. Il contribuente, per esempio, potrebbe provare dei costi attraverso l'esibizione di fatture di costi regolarmente sostenuti ma non registrati.

Ulteriori due punti di interesse della sentenza n. 4225/2006 meritano di essere evidenziati:

  1. il contribuente non può genericamente lamentare delle discordanze senza provare quanto affermato. Si registra un vezzo - che oggi la Cassazione censura in maniera precisa e puntuale - con cui il contribuente si limita ad affermare che non risponde al vero ciò che è contenuto nel pvc, senza però, di contro, offrire nessun elemento a supporto, tale da consentire il sindacato di legittimità al giudice
  2. il visto doganale, nella fattispecie esaminata, non rileva, atteso che, per effetto di quanto previsto dall'articolo 63 del Dpr n. 43 del 23 gennaio 1973, occorre distinguere il mero visto dai controlli veri e propri sulla merce, eseguibili saltuariamente o su motivata richiesta da parte della Guardia di finanza. Controlli che, nel caso in oggetto, non sono avvenuti.


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