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Giurisprudenza

Costi scovati nei conti bancari:
valida la presunzione di ricavi

Per ribaltare la determinazione dell’erario, il contribuente è tenuto a dimostrare che le movimentazioni verificate di fatto non sono operazioni economiche dell’impresa

banconote
Con la sentenza 4688 del 23 marzo, la sezione tributaria della Corte di cassazione ha stabilito che le spese rintracciabili dal conto corrente bancario dell’azienda sono sempre imponibili se non documentate. Il Fisco può, infatti, considerarle come ricavi in nero.
 
Il fatto
La vicenda in esame riguarda una Srl a cui erano stati notificati diversi avvisi di accertamento ai fini Irap e Iva per omessa contabilizzazione di ricavi, desunti anche dai risultati di indagini bancarie. In particolare, gli importi contestati erano costituiti in gran parte da accrediti sul conto corrente, che in forza di mancata giustificazione dovevano essere qualificati come ricavi che aumentavano il reddito. La parte restante era rappresentata, invece, dai costi e dalle spese non contabilizzati che rappresentavano sempre ricavi da ricondurre a imposizione.
 
Il giudizio, favorevole al contribuente in primo grado, veniva sovvertito dalla Commissione tributaria regionale, la quale rilevava che la rettifica reddituale era fondata esclusivamente sulle movimentazioni bancarie, prescindendo sia dalla maggiore percentuale di ricarico sia dalle quote di ammortamento.
Questo giudicato veniva contestato in Cassazione dalla società, la quale denunciava violazione dell’articolo 32 del Dpr 600/1973 e connesse norme in materia di prove, oltreché contraddittorietà della motivazione, atteso che il valore dei prelevamenti, ritenuti costi giustificati, non potevano poi mutare valenza e sommarsi ai ricavi costituiti dai versamenti non giustificati.
 
Per compiutezza occorre ricordare che la disposizione richiamata, tra l’altro, prevede (comma 1, n. 2) che i dati e gli elementi attinenti ai rapporti e alle operazioni acquisiti e rilevati nel corso delle indagini ispettive, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine. Alle stesse condizioni sono, altresì, posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni.
 
La decisione
La Corte suprema ha respinto il ricorso e, in sintonia con la decisione della Commissione del riesame, ha affermato che le presunzioni fondate sui movimenti sul conto corrente bancario legittimano l’ufficio a considerare come ricavi i versamenti e i prelevamenti a cui il contribuente non riesca a fornire adeguata giustificazione, con conseguente inversione dell’onere della prova.
 
In altri termini, nello scenario di questo principio generale di prova legale (articoli 32 del Dpr 600/1973 e 51 del Dpr 633/1972), per poter accertare la natura di costi degli addebiti, in particolare, al fine della loro deducibilità, è necessario che il contribuente fornisca prova contraria alla rilevanza fiscale delle movimentazioni bancarie.
Deve quindi ritenersi infondata la censura di specie, in quanto l’applicazione del disposto dell’articolo 32 presuppone che si sia in presenza di costi che, seppure non contabilizzati, siano stati effettivamente sostenuti dalla società. Nel caso in esame, non essendo accertata la natura di costi e movimenti bancari in addebito, non se ne può tener conto ai fini della loro deducibilità.
 
Del resto, era onere della contribuente evidenziare gli elementi di fatto che consentissero di escludere l’attribuibilità delle movimentazioni bancarie a operazioni economiche dell’impresa. E, in tal senso, mancano specifiche deduzioni e contestazioni della ricorrente relative alla rilevanza fiscale delle movimentazioni bancarie.
Da ciò ne deriva che la circostanza per cui, a seguito di un accertamento bancario in cui si riscontrano movimentazioni nel conto dell’imprenditore, non documentate da dati contabili, l’Amministrazione non riesce a dimostrare che le somme sono utilizzate per alimentare spese personali, non libera il contribuente dall’onere di pagare la maggiore Iva dovuta (Cassazione n. 22636/2010).
 
La giurisprudenza è, infatti, del tutto pacifica nel ritenere che le presunzioni fondate sulle movimentazioni legittimano l’ufficio a far uso dei dati e notizie provenienti dagli accertamenti bancari e considerare come ricavi i versamenti e i prelevamenti dei quali il contribuente non riesca a dare giustificazione (Cassazione n. 16341/2008), vigendo al riguardo il consolidato principio (Cassazione nn. 6618/2009 e 13288/2011) secondo cui "Il rinvenimento di singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari non transitati nelle scritture dell'imprenditore costituisce il presupposto di una presunzione legale (anche se relativa, in quanto è ammessa la prova del contrario da parte del contribuente) a favore del Fisco, utilizzabile ai fini della ricostruzione della base imponibile (cfr. Cassazione n. 9946/2000) di cui all'art. 32, comma 1, n. 7), del D.P.R. n. 600/1973 (al pari dell'identica dell’art. 51, comma 2, n. 7), del D.P.R. n. 633/1972)”.
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