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Giurisprudenza

Cram down senza avallo del Fisco,
con soli mini creditori impraticabile

La richiesta di omologa del concordato preventivo senza l’adesione dell’Amministrazione finanziaria non può essere accolta senza un piano con l’esposizione debitoria complessiva dell’impresa

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Ai fini della legittima applicazione del cosiddetto cram down, quanto alla convenienza della proposta per l’Amministrazione dissenziente, bisogna tenere conto anche della possibilità di azioni recuperatorie e risarcitorie, praticabili nello scenario fallimentare. L’accordo da “imporre” all’Amministrazione finanziaria deve essere funzionale a regolare, in modo ampio e sistematico, l’esposizione debitoria complessiva dell’impresa e dunque la percentuale dei creditori aderenti non può essere nulla o irrisoria.

La Corte d’Appello di Firenze, con decreto del 14 ottobre 2022, ha affermato rilevantissime considerazioni, in relazione ai presupposti di applicazione del cosiddetto cram down.
A tal proposito, ricordiamo che, con riferimento al concordato preventivo, il comma quarto dell’articolo 180, della legge fallimentare (e, analogamente, per gli accordi di ristrutturazione, il comma quarto dell’articolo 182-bis), come poi novellato dal Dl n. 125/2020, attribuisce al Tribunale il potere di omologare il concordato preventivo anche “in mancanza di adesione” da parte dell’Amministrazione finanziaria, quando la stessa adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’articolo 177 della legge fallimentare, e quando la proposta di soddisfacimento del Fisco è più conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
 
In un tale contesto, il decreto del Tribunale di Firenze, di rigetto dell’omologa della proposta di definizione dei crediti tributari e previdenziali nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti, è stato impugnato.
La società aveva previsto di proseguire la propria attività, soddisfacendo i creditori con i proventi della stessa e con l’apporto di finanza esterna, messa a disposizione dall’amministratore per 235mila euro.
Nei confronti della società pendevano atti di accertamento per complessivi 2.624.753 euro. Avvisi contro cui la società aveva proposto ricorso in Commissione tributaria.
Sommando al passivo gli importi degli accertamenti, l’ammontare totale risultava di 3.215.519 di euro, mentre le attività correnti erano pari a 969.568,59 euro.

Sia l’Inps che l’Agenzia delle entrate avevano espressamente dichiarato il proprio diniego alla proposta di transazione fiscale, laddove la percentuale dei crediti dei due enti risultava pari a circa l’81% del totale.
La società richiedeva pertanto che, ai sensi dell’articolo 182-bis, comma 4, della legge fallimentare, la proposta di transazione fosse comunque omologata, essendo l’adesione dei due enti decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale del 60% ed essendo la proposta più conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
 
La società aveva, poi, depositato un accordo, ex articolo 182-bis, con due creditori privati “minori”, rispettivamente per 1.561 e 12.356,16 euro, essendosi tali creditori impegnati a non azionare i propri crediti fino al 30 marzo 2022.

Tanto premesso, il Tribunale rilevava che i creditori con i quali era stato raggiunto l’“accordo” si erano in realtà solo limitati, peraltro per importi irrisori, a obbligarsi a non azionare i loro crediti. Mancando, quindi, un vero accordo di ristrutturazione, quello che la società richiedeva di omologare era solo la proposta (non accettata) di transazione fiscale.
Il Tribunale riteneva che ciò non fosse consentito e che, comunque, un accordo con due soli creditori, rappresentanti un importo irrisorio dell’esposizione debitoria complessiva, non potesse consentire l’omologazione “forzata”.

In mancanza di accordo, e in presenza solo di creditori estranei, che dovevano essere pagati integralmente, l’Amministrazione finanziaria avrebbe del resto subito coattivamente un trattamento deteriore non giustificato dal sistema.

Per tutte queste ragioni, secondo il Tribunale, non si poteva procedere all’omologazione.
Anche perché mancava la dimostrazione della convenienza della proposta rispetto a quanto realizzabile in liquidazione, nell’ambito della quale erano possibili azioni risarcitorie e recuperatorie.

La società ricorreva, dunque, in Corte d’Appello, rilevando che le tesi del Tribunale non avevano sostegno normativo, non indicando la legge che la percentuale dei creditori aderenti debba rispettare la soglia della “non irrisorietà” e affermando che, comunque, la proposta era più conveniente rispetto a quanto realizzabile in liquidazione, laddove, nell’ipotesi fallimentare le Amministrazioni si sarebbero viste pagare il 31% del totale, a fronte del 44,44% dell’ipotesi transattiva.
A parere della Corte d’Appello, i motivi di impugnazione erano infondati, avendo il Tribunale correttamente ritenuto che l’accordo non corrispondesse al modello legale previsto dall’articolo 182-bis della legge fallimentare.
Del resto, era condivisibile anche l’argomentazione che i due soli creditori coinvolti nell’accordo (anche a considerarlo tale) erano titolari di crediti veramente esigui, con la conseguenza che, se esso fosse stato omologato, sarebbero stati integralmente soddisfatti tutti gli altri creditori, ancorché titolari di crediti chirografari, mentre solo l’Amministrazione, titolare di crediti privilegiati, avrebbe visto coattivamente ridotto il proprio credito.
 
Infine, nella valutazione del requisito della convenienza, non era stata considerata la possibilità delle azioni recuperatorie e risarcitorie, praticabili nello scenario fallimentare, laddove gli accertamenti impugnati avevano anche trovato conferma in contenzioso, confermandosi così che l’esperimento delle azioni risarcitorie era tutt’altro che una prospettiva eventuale.

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