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Giurisprudenza

Dal “nero” che emerge dall’agenda
l’effettivo giro d’affari dell’azienda

La rilevanza della contabilità parallela non va ancorata alle formalità connesse alle modalità con cui è tenuta, prescindendo anche dall’applicabilità o meno del principio di competenza

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La Cassazione, con l’ordinanza 177 del 9 gennaio 2015, torna a pronunciarsi sulla valenza probatoria della “contabilità in nero”, ribadendo quanto costantemente affermato circa la possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di procedere ad accertamento induttivo, ai sensi dell’articolo 39 del Dpr 600/1973, senza che debbano ricorrere ulteriori elementi, con inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente. In altri termini, secondo la Corte suprema, è sufficiente che dalla contabilità parallela emergano, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero la situazione patrimoniale e il risultato economico dell’attività svolta.
 
I fatti in causa
Con l’avviso impugnato, l’Amministrazione finanziaria ha accertato nei confronti di una Srl, ex articolo 56 del Dpr 633/1972, maggiori operazioni imponibili rispetto a quelle dichiarate, a seguito del ritrovamento di documentazione extracontabile, in base alla quale la Guardia di finanza ha contestato acquisti di merce senza emissione di fattura e corrispettivi non annotati e non dichiarati.
 
Il giudizio di primo grado si è concluso con declaratoria di inammissibilità del ricorso per tardiva presentazione. Con atto di appello, la società ha contestato l’assunto dei giudici di prima istanza, chiedendo l’integrale riforma della sentenza impugnata.
 
La Commissione regionale ha accolto l’appello, condividendo le eccezioni pregiudiziali e di merito formulate dalla ricorrente con riferimento all’illegittimità della pretesa impositiva. Secondo la Ctr, la documentazione extracontabile rinvenuta in un’agenda non conteneva elementi rilevanti ai fini Iva, perché la contribuente, essendo società a responsabilità limitata, era vincolata al criterio contabile di competenza, così che “i movimenti di cassa, così come indicati nella menzionata agenda, di per sé non integrano operazioni rilevanti ai fini iva, né in termini di acquisti né in termini di corrispettivi (vendite), ma semplicemente in termini di entrate e uscite”.
La Corte di secondo grado ha, inoltre, affermato che “nel caso in esame, la specifica documentazione rinvenuta, sotto il profilo del suo contenuto, non è sostanzialmente idonea … a giustificare le conclusioni cui l’Ufficio è pervenuto … l’Ufficio avrebbe dovuto addurre ulteriori elementi significativi per supportare l’accertamento …”.
 
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi:
  • violazione dell’articolo 39, comma 1, lettera d) e comma 2 del Dpr 600/1973, dell’articolo 55 del Dpr 633/1972 e dell’articolo 75 del Tuir vigente ratione temporis
  • insufficiente motivazione.
La sentenza
La Corte di cassazione, con l’ordinanza 177/2015, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, cassando la sentenza impugnata e rinviando ad altra sezione della Ctr.
I giudici di legittimità hanno affermato che “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la ‘contabilità’ in nero’, costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 del D.P.R. 600/1973, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta. Ne consegue che detta ‘contabilità in nero’, per il suo valore probatorio, legittima di per sé ed a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui al citato art. 39, incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli (Cass. 24051/2011 e Cass. 15318/2013 resa nei confronti di una s.r.l.)”.
 
Dopo aver, dunque, dato atto della presenza di uno stabile orientamento – testimoniato anche dal fatto che è stata emessa un’ordinanza anziché una sentenza (si vedano ex multis Cassazione, ordinanza 27456/2014; Cassazione, sentenze 15318/2013 e 5947/2009) – i giudici proseguono nell’analisi dell’arresto emesso dalla Corte di secondo grado, evidenziando che “la censura in ordine alla motivazione della sentenza coglie nel segno, apparendo poco comprensibile l’affermazione della C.T.R. secondo la quale i movimenti riscontrati nell’agenda non potrebbero rilevare ai fini iva in ragione della particolare tipologia del soggetto contribuente in quanto soggetto al principio di competenza. Ed infatti sembra essere sfuggito al giudice di appello che la rilevanza della contabilità in nero ai fini fiscali e dell’accertamento induttivo di cui all’art. 39 D.P.R. 600/1973 è totalmente sganciata da qualunque formalità connessa alle modalità con le quali è tenuta, richiedendosi unicamente che dalla medesima emergano, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero emerga la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta. Ciò in ragione del fatto che la contabilità in nero è tale proprio perché non ufficiale; ragion per cui la regolarità formale delle scritture contabili assume rilievo unicamente per consentire all’imprenditore di utilizzarle come mezzo di prova contro i terzi (Cass. 19598/2003 resa proprio nei confronti di s.r.l.)”.
 
Riflessioni
La sentenza – come già anticipato – si inserisce in un filone ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, in base al quale deve essere riconosciuto valore indiziario al reperimento di documentazione extracontabile, elemento valutabile come grave, preciso e concordante, ai sensi dell’articolo 2729 del codice civile.
 
Nel caso di specie, la Guardia di finanza, in occasione di una verifica fiscale a carico della società contribuente, aveva reperito un’agenda nella quale erano stati annotati acquisti e vendite non corrispondenti alla contabilità ufficiale, in quanto in quest’ultima non rinvenuti.
Secondo la Corte suprema, rientrano, dunque, nel concetto di “scritture contabili” di cui agli articoli 2709 e seguenti del codice civile “tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta”.
Il “semplice” ritrovamento del brogliaccio dal quale emerge la contabilità parallela integra una presunzione grave, precisa e concordante che – a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento – legittima il ricorso all’accertamento induttivo previsto dall’articolo 39 del Dpr 600/1973.
 
Tale affermazione si pone in linea con quanto affermato dalla Cassazione con sentenza 4472/2003, secondo cui “deve ritenersi in linea di principio che gli elementi idonei a consentire al giudice di trarre la prova di un fatto in via presuntiva ai sensi dell’art. 2729 c.c. non devono necessariamente essere più di uno nonostante la previsione del requisito della concordanza contenuto in tale norma, valendo questa solo nell’ipotesi in cui concorrano più elementi e potendo quindi anche uno solo di essi essere assunto a base purché grave e preciso. La presunzione semplice del resto non è altro che un procedimento logico da cui il giudice desume l’esistenza di un fatto ignoto dalla presenza di un fatto noto sul presupposto di una loro successione nella normalità dei casi. E’ evidente pertanto che anche un solo fatto, qualora presenti i suddetti requisiti, possa essere idoneo per una tale deduzione e costituire quindi la fonte della presunzione. Tale è del resto l’orientamento di questa Corte”.
 
In senso analogo si è pronunciata 22122/2010 della stessa Corte, in base alla quale “gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi – benché l’art. 2729 c.c., comma 1 (…) si esprime (…) al plurale – potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, purché preciso e grave”.
 
Secondo la Cassazione, la Ctr ha, dunque, errato, nell’affermare che “nel caso in esame, la specifica documentazione rinvenuta, sotto il profilo del suo contenuto, non è sostanzialmente idonea … a giustificare le conclusioni cui l’Ufficio è pervenuto … l’Ufficio avrebbe dovuto addurre ulteriori elementi significativi per supportare l’accertamento …”.
 
Risulta, inoltre, interessante l’ulteriore principio enunciato dalla Corte, secondo cui la rilevanza della contabilità “parallela” non deve essere ancorata alle formalità connesse alle modalità con le quali è tenuta. In altri termini, è sufficiente che emergano, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero emerga la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta. La regolarità formale delle scritture contabili assume rilievo unicamente per consentire all’imprenditore di utilizzarle come mezzo di prova contro i terzi, considerato che, a determinate condizioni, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, l’ufficio è legittimato a procedere alla ricostruzione induttiva del reddito (ad esempio, Cassazione 24250/2014 e 15250/2012). E tutto ciò a prescindere dal soggetto passivo d’imposta – persona fisica o giuridica – e dall’applicabilità o meno del principio di competenza di cui all’articolo 109 del Tuir.
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