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Giurisprudenza

Deducibilità dei costi e consorzi, a vincere è la “vera” inerenza

La spesa, che ogni società affronta in base ai patti, non è in se stessa attinente all’attività dell’impresa

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Con la sentenza 6855/2009, la sezione tributaria della Corte di cassazione ha affermato importanti principi in materia di consorzi e conseguenze impositive in capo alle singole consorziate.
In particolare, la Suprema corte evidenzia che, anche all'interno dei consorzi, vale il principio di inerenza, la cui applicazione deve essere comunque riferita all'attività di impresa delle singole consorziate, la cui soggettività tributaria non viene meno per il solo fatto di far parte di un consorzio.
La valutazione dell'inerenza dei costi dedotti dalla consorziata, quindi, non deve essere effettuata con riferimento all'attività d'impresa del consorzio.
Al contrario, se una consorziata sopporta un determinato costo (o effettua un rimborso a favore del consorzio, che tale costo ha sopportato), ciò è legittimo solo se tale costo corrisponde effettivamente a una sua, specifica, necessità produttiva e consegue a una sua autonoma valutazione.

L'Amministrazione finanziaria, quindi, può e deve sindacare se i rimborsi corrisposti dalle consociate, e da queste dedotti dal proprio imponibile, si colleghino a costi la cui natura consente effettivamente la (legittima) deduzione e in particolare se questi rispettino il principio di inerenza.
Si legge, infatti, nella richiamata sentenza che "la relazione di tipo puramente economico-funzionale che,..., deve intercorrere tra il costo e l'impresa per consentire la deduzione, vieta di ritenere che sia sufficiente interporre tra il primo e la seconda un soggetto neutrale per togliere rilievo a quella relazione: al contrario, è proprio la presupposta neutralità del consorzio che fa persistere il legame diretto tra il costo in sé e le necessità produttive dell'impresa che ne beneficia".

Né vale a smentire tali conclusioni l'eccezione per cui l'Amministrazione finanziaria non potrebbe essere insensibile agli accordi statutari interni a un gruppo societario consorziato, dato che il principio della libertà d'iniziativa economica (ex articolo 41, Costituzione) e di organizzazione imprenditoriale cade solo di fronte alla dimostrazione dell'intento di frodare o di eludere l'imposta, in contrasto con l'articolo 53 della stessa Carta costituzionale.
La Cassazione respinge anche tali argomentazioni, evidenziando in particolare che, in questa visuale della libertà d'iniziativa economica applicata all'organizzazione aziendale, il tema della "neutralità" del consorzio deve essere precisato sia sotto il profilo della soggettività fiscale (poiché, essendo esso costituito in forma di società di capitali, è distinto dai consorziati e risponde autonomamente delle proprie obbligazioni tributarie), sia sotto il profilo dei rapporti economici interni al gruppo, retti da uno statuto che è fonte di obbligazioni contrattuali per tutti i consorziati.

I giudici di legittimità, trattando più specificamente del rapporto fiscale facente capo alla singola consorziata, giungono dunque alla conclusione che "si deve ammettere che l'adempimento delle obbligazioni consistenti, essenzialmente, nel demandare al consorzio la gestione esclusiva di determinati affari d'interesse comune ..., non costituisce mero spostamento della relativa contabilità in una sede estranea all'impresa (consorzio), bensì esecuzione dei patti consortili, non assimilabili, nel caso specifico, a quelli del consorzio d'imprese per l'esecuzione di opere pubbliche, retti da apposite norme che prevedono il riaddebito (o ribaltamento) alle consorziate dei costi sopportati dal consorzio; il quale, in tal caso, possiede "il più modesto rilievo di una struttura operativa al servizio di tali imprese" (Cassazione, sentenza 16410/2008).
Da ciò discende che la parte di spesa, che ciascuna società affronta, in base al patto consortile, per assicurarsi i vantaggi derivanti dall'istituzione del consorzio, non ha in se stessa la connotazione d'inerenza, ai sensi e ai fini dell'articolo 109 del Tuir, giacché ogni consorziata è legittimamente richiesta di dimostrare se, e in quale misura, tale spesa si riferisce ad attività o beni propri, da cui derivino ricavi o altri proventi che concorrono a formarne il reddito.
In mancanza di tale dimostrazione, quindi, la spesa non è deducibile, considerato inoltre che ricade sempre sul contribuente l'onere di dimostrare l'inerenza all'attività di impresa delle singole spese affrontate. Il giudice di merito, nel valutare se questa prova sia stata fornita, deve prendere in esame la funzione dei beni e dei servizi acquisiti, "prescindendo dall'entità della spesa e dalla circostanza che i versamenti siano stati erogati ad un soggetto diverso dal contribuente, il quale abbia a sua volta provveduto alla acquisizione dei beni o alla organizzazione dei servizi" (Cassazione, sentenza 10257/2008).

Il tipo di mandato
Tali considerazioni devono essere confrontate con le previsioni giuridiche di diritto civile in materia di consorzi ad attività esterna, mandato, cessione del contratto, autonomia delle parti contrattuali, senza però fare confusione tra mandato con rappresentanza, mandato senza rappresentanza e gestione di affari altrui.

Nel mandato senza rappresentanza, come quello proprio dei consorzi, il mandatario è infatti un soggetto giuridicamente autonomo dal mandante.
Il mandatario, agisce dunque in nome proprio, acquistando diritti e assumendo obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi.
A conferma di ciò vi è peraltro l'univoco orientamento della giurisprudenza nell'affermare che nel mandato senza rappresentanza nessun rapporto si costituisce tra mandante e terzo, e il mandatario è direttamente obbligato nei confronti dell'altro contraente anche se il contratto coinvolge interessi esclusivamente propri del mandante.
Del resto il mandatario non è un semplice gestore di affari altrui, laddove la differenza principale consiste nel fatto che, mentre il mandatario è investito del suo potere dalla volontà del mandante, il gestore trae ex se la legittimità dell'ingerenza negli affari altrui.
A dimostrazione di ciò sta la considerazione che, se il mandatario supera i limiti del mandato, il fatto compiuto oltre i limiti rimane a suo carico.
È quindi del tutto errato sostenere che dalla partecipazione al consorzio discende direttamente e necessariamente l'assunzione da parte delle imprese consorziate della titolarità di diritti e obblighi, anche fiscali. Questo avviene nel mandato con rappresentanza, laddove gli atti posti in essere in nome e per conto del rappresentato producono direttamente effetto nei confronti del rappresentato. Ma il rapporto tra consorzio e consorziate non è assimilabile a questo tipo di mandato, ma bensì a quello senza rappresentanza.

La ricostruzione del rapporto in termini di mandato (corretta con riferimento all'ipotesi in cui più imprese decidano di costituire, per l'esecuzione di un'opera, un vero e proprio consorzio) risulta del tutto impropria nel caso in cui le medesime imprese decidano invece di dare vita, per il perseguimento del medesimo scopo, a una società consortile, perché questa, a differenza del semplice consorzio, "è retta dalla disciplina normativamente prevista per il tipo societario adottato, la cui unica peculiarità è costituita dal fatto di avere, come oggetto sociale, lo scopo di disciplinare o svolgere fasi delle imprese che ne sono socie" di tal che "il rapporto tra la società consortile e ciascuna impresa socia è ... riconducibile ad un normale rapporto fra socio e società, ossia ad un rapporto tipico ed espressamente strutturato e disciplinato, il quale non ha niente a che vedere con il contratto di mandato" (come reso evidente dall'unica norma che il codice dedica alle società consortili, ossia l'articolo 2615 ter del codice civile).

Un caso pratico
Una consorziata porta in deduzione una sopravvenienza passiva, formatasi sul prezzo già pattuito per i lavori eseguiti dalla stessa consorziata (assegnataria) a seguito dell'assegnazione da parte del consorzio. Tale sopravvenienza, però, si forma nell'ambito di una transazione raggiunta, non tra stazione appaltante e consorziata, ma tra stazione appaltante e consorzio.
La consorziata ritiene comunque che tale transazione, anche se raggiunta tra altri soggetti (di cui uno è il consorzio di cui anch'essa fa parte), abbia effetti vincolanti e diretti anche su di essa.
La scelta di convenienza, operata dal consorzio nell'ambito della transazione in ordine al maggior credito vantato dalla consorziata, quindi, ad avviso della consorziata, visto il particolare rapporto giuridico che disciplina il rapporto tra le parti in causa, la vincolerebbe "automaticamente", consentendole la possibilità di dedursi la relativa sopravvenienza passiva.

Tali conclusioni non sono condivisibili proprio per il particolare rapporto giuridico esistente tra il consorzio e la consorziata che, nel caso descritto, legittimerebbe un'attività accertativa da parte dell'Amministrazione finanziaria.
Con operazioni come quelle in esame, laddove lasciate all'assoluta arbitrarietà delle parti, non solo si disconoscerebbe il principio di autonoma soggettività giuridica, ma si realizzerebbero anche inaccettabili duplicazioni di costi.
Ciò che, dunque, caratterizza questo tipo di operazioni è l'assenza di giustificazione economica del negozio (in questo caso di transazione), laddove:
  • la prova della scelta economicamente ragionevole deve essere fornita dal contribuente
  • la scelta deve comunque derivare da valutazioni del soggetto titolare dle credito e non certo di altri soggetti.

Le perdite su crediti sono, del resto, deducibili solo quando risultano da elementi certi e precisi, hanno carattere inevitabile e rispondono a una scelta di convenienza economica dell'imprenditore.
Nel caso esaminato, invece, un soggetto terzo (quale, almeno dal punto di vista della soggettività societaria e tributaria, è anche il consorzio), avrebbe deciso in ordine alle minori entrate dell'assegnataria/consorziata.

Se è vero che la deducibilità di un costo, come sopravvenienza passiva in relazione a un credito, discende dall'assunzione di responsabilità in ordine alla maggiore convenienza economica tra procedere in un giudizio infruttuoso e rinunciare al credito stesso, come si può pretendere che tale deducibiltà sia consentita a chi non ha fatto tale scelta, non si è assunto tale responsabilità e non ha nemmeno partecipato alle procedure di arbitrato per valutare (e decidere) la convenienza alla rinucia del credito?

In conclusione, ai fini delle imposte sui redditi e della relativa imputazione, il consorzio costituito fra imprese non può essere ricondotto automaticamente a un centro di imputazione di rapporti giuridici da ripartire per trasparenza, in quanto deve aversi comunque riguardo sia alle clausole statutarie che alle intese sottoscritte per la disciplina dei rapporti fra consorzio e consorziati e fra gli stessi consorziati.
Perché un costo possa essere incluso fra le componenti negative del reddito d'impresa, non soltanto è necessario che ne sia certa l'esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l'inerenza, e per provare tale ultimo requisito non è sufficiente che la spesa sia stata dall'imprenditore riconosciuta o contabilizzata, dovendo l'imputabilità del costo anche collegarsi a fatti (e decisioni) comunque imputabili al soggetto che tale costo si deduce.
Il rapporto di mandato che si instaura fra le imprese associatesi in una società consortile non incide quindi sui requisiti "ordinari" della deducibilità fiscale dei costi e, in particolare non deroga al principio di inerenza, dovendo la consorziata provare adeguatamente oneri e costi con riguardo a esistenza o inerenza, anche perché, altrimenti, ciò potrebbe sottintendere passività inesistenti o manovre elusive.
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