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Giurisprudenza

Delinquenti si, ma non evasori

Confermata la tassabilità, anche ai fini Iva, dei proventi da attività illecita

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L'attuale normativa
Nel campo delle imposte dirette, l'articolo 14, comma 4, della legge 24/12/1993, n. 537, ha espressamente disciplinato i proventi illeciti sancendo che "Nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria".
Tale norma pertanto, rappresenta nel nostro ordinamento tributario l'applicazione della cosiddetta "teoria economica" che, in dottrina, ammette la tassabilità dei proventi illeciti, opinando che presupposto dell'imposizione sia, soltanto ed esclusivamente, il possesso di un reddito, indipendentemente dalla sua provenienza., in contrapposizione con la "teoria giuridica", secondo la quale l'attività illecita non può essere considerata presupposto di imposta, costituendo il risultato ottenuto pretium sceleris e non già reddito, tecnicamente e giuridicamente inteso. Tale ultimo orientamento è da ritenersi oramai superato, in considerazione del dato normativo di cui al citato comma 4 dell'articolo 14 e della giurisprudenza, oramai consolidata, della Cassazione.

La sentenza n. 1142 del 20 gennaio 2006
Il Supremo collegio, con la sentenza n. 1142 del 20/01/2006, ha ribadito che l'arricchimento derivato dal prezzo del reato, soggetto a confisca obbligatoria ma in effetti non confiscato, integra imponibile ai fini Irpef e Ilor, in quanto riconducibile alla categoria residuale dei redditi diversi e che la nozione di "provento" - utilizzata nel citato articolo 14 - come reddito diverso è idonea a includere tanto il profitto o prodotto del reato, quanto il prezzo dello stesso (in tal senso Cassazione, sezione I, 19/04/1995, n. 4361).

La Corte, inoltre, confermando quanto già chiarito dall'Amministrazione finanziaria con la circolare n. 150 del 1994, ha nuovamente sottolineato che la norma, di cui all'articolo 14, comma 4, della legge n. 537/93, costituisce interpretazione autentica dell'articolo 6, Dpr n. 917/86, nonché criterio ermeneutico determinante per giungere ad analoghe conclusioni con riferimento alla previgente disciplina dettata dal Dpr n. 597 del 1973, che all'articolo 80 prevedeva che "Alla formazione del reddito complessivo, per il periodo d'imposta e nella misura in cui è stato percepito, concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati nelle disposizioni del presente decreto".

E' evidente come la formulazione generica della norma e la mancanza di un espresso riferimento ai proventi da attività illecite rendessero difficoltoso, anche se non impossibile, recuperarli a tassazione.
Con l'introduzione dell'articolo 14, comma 4, della legge 24/12/1993, n. 537, il legislatore ha codificato tale fattispecie e il riconoscimento da parte della Cassazione, oramai pacifico, del carattere ermeneutico, e non innovativo, di tale norma consente senz'altro l'applicazione retroattiva della stessa a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore. Tale disposizione interpretativa, infatti, come correttamente osservato dal Supremo collegio nella sentenza n. 4381 del 19/04/1995 "anche se non vincolante rispetto alla precedente disciplina costituisce criterio ermeneutico influente alla stregua della sostanziale identità della stessa in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione e pertanto impone di considerare parte di detto imponibile il prezzo del reato anche nel vigore della normativa antecedente al citato D.P.R. 917/86".

Vale la pena ricordare, a tal proposito, che in forza del combinato disposto dell'articolo 3, comma 1, e dell'articolo 1, comma 2, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), secondo cui le disposizioni tributarie non possono avere effetto retroattivo, fatti salvi casi eccezionali in cui una legge ordinaria le qualifichi espressamente come norme interpretative (proprio al fine di evitare dubbi sulla natura della norma e sulla sua decorrenza), sono scongiurate diatribe come quella in esame, in ordine alle leggi entrate in vigore successivamente allo statuto del contribuente.

La sentenza n. 1372 del 24 gennaio 2006
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, appare logico e consequenziale che la Corte di cassazione si esprimesse in senso analogo anche in riferimento all'imponibilità Iva dei proventi illeciti, pur mancando una previsione normativa speculare a quella di cui all'articolo 14, comma 4, della legge537/93, in tema di imposte dirette.
La sentenza n. 1372 del 24/01/2006 ha confermato tale orientamento, già espresso con quella n. 3550 del 2002, sulla base della considerazione che la norma da ultimo citata, pur riferendosi alla disciplina delle imposte sul reddito, "è inequivocabilmente una norma di principio, in forza della quale non si può eccepire la esenzione tributaria per i proventi derivanti da attività illecite".
L'affermazione, peraltro, è conforme a quanto osservato dapprima in sede giurisdizionale, a livello europeo, dalla Corte di giustizia con sentenza C-283/95 dell'11/6/1998, e poi dalla prassi amministrativa (circolari n. 176 del 9/8/1999 e n. 76 del 2/10/2002). In tali occasioni, si è sottolineato che, a causa del principio di neutralità fiscale proprio dell'Iva, alle attività illecite si applica lo stesso trattamento previsto per le medesime attività esercitate secondo i canoni di legge e, pertanto, risulta perfettamente applicabile, anche ai fini Iva, la regola dell'imponibilità del provento illecito.

Conclusioni
Le sentenze in commento evidenziano ancora una volta la "stretta" da parte della Suprema corte nei confronti dei proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, seguendo, oltre che le sue precedenti pronunce, il percorso tracciato dal legislatore con l'articolo 14, comma 4, della legge 24/12/1993, n. 537, e, dall'Amministrazione finanziaria, con le citate circolari.

Lo stesso legislatore, suffragato anche dalla precedente giurisprudenza di legittimità (cfr, fra le altre, Cassazione n. 7071 del 29/05/2000) ha proseguito su tale "linea dura" con l'introduzione (a opera dell'articolo 2, comma 8, legge 27/12/2002, n. 289) del comma 4-bis all'articolo 14 della legge 24/12/1993, n. 537, che sancisce l'indeducibilità dei costi o delle spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato (e non anche illecito civile o amministrativo).

Tale disposizione, da interpretare sistematicamente con quella di cui al citato articolo 14, comma 4, avente carattere innovativo e non semplicemente interpretativo (circolare 26/09/2005, n. 42/E), chiude il cerchio relativamente alla disciplina fiscale delle attività illecite (anche se sanziona con l'indeducibilità dei costi solo le attività illecite più gravi quali sono quelle aventi rilevanza penale), rappresentando una deroga rispetto al principio generale dell'imposizione sui risultati netti che, di contro, è confermato anche nel precedente comma 4.

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