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Giurisprudenza

Dichiarazione infedele della Snc. Pene pecuniarie estese ai soci

Alla base della decisione, i poteri di verifica e controllo loro riconosciuti

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Con sentenza n. 19192 del 16 marzo 2006 (depositata il 6 settembre 2006), la Corte di cassazione ha affermato che tutti i soci di una società di persone rispondono del pagamento (oltre che della quota di imposta Irpef loro imputata) delle pene pecuniarie per infedele dichiarazione, dal momento che gli stessi hanno il potere di procedere alla verifica e al controllo dell'operato degli amministratori.

Fatto e diritto
La questione trae origine da degli avvisi di accertamento con cui l’allora ufficio Imposte dirette rettificava il reddito Irpef 1988 di due soci di una società di persone, in forza dell’accertamento operato in capo alla società, irrogando le sanzioni per infedele dichiarazione Irpef.
La controversia giunge in Cassazione, poiché la Commissione tributaria regionale dell'Umbria, con sentenza del 24 marzo 1999, accoglieva parzialmente l'appello dell'ufficio, ritenendo però illegittime le sanzioni nei confronti del socio, applicate ai sensi dell'articolo 46 del Dpr n. 600/1973.

La Corte, esaminato il ricorso, ha ritenuto corretto l’operato dell’ufficio e legittima l’applicazione della sanzione per infedele dichiarazione “perché, per le società di persone, l'art. 2291 del codice civile esclude l'ignoranza su quanto dichiarato dalla società diversamente dal vero, avendo il diritto di esser informati dagli amministratori sull'attività sociale, di avere i documenti ed il rendiconto (art. 2261 del codice civile)”.

Secondo la Cassazione, l'applicazione al socio della sanzione per infedele dichiarazione deriva, fra l’altro, dal fatto che ai soci delle società di persone “è consentito il controllo dell'amministrazione della società, verificando l'effettivo ammontare degli utili conseguiti. La sanzione non viene quindi irrogata sulla base della mera volontarietà, in contrasto con l'elemento della colpevolezza introdotto dall'art. 5 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, consistendo la colpa, per i soci non amministratori, nell'omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sullo svolgimento degli affari sociali e di consultazione dei documenti contabili, e del diritto ad ottenere il rendiconto dell'attività sociale - dalla cui scaturisce il diritto del socio a percepire gli utili (artt. 2261 e 2262 del codice civile) - e per i soci amministratori derivante dai poteri di gestione, direzione e controllo dell'attività sociale”.

Breve nota
La sentenza consolida il principio di responsabilità in capo al socio per i redditi derivanti dalla rettifica operata - a monte - nei confronti della società di persone, che ha generato un contenzioso di notevoli proporzioni.
In pratica, per gli eventuali maggiori ricavi e/o costi contestati in capo alla società, il socio oltre al pagamento del supplemento di imposta Irpef spettante, in ragione della quota di partecipazione, è tenuto anche al pagamento delle pene pecuniarie per infedele dichiarazione.

In tal senso si era già espressa la Cassazione, a Sezioni unite, con la sentenza n. 125/1993, dove era stato affermato che il socio di una società di persone che non abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario, nella misura risultante dalla rettifica operata dall'Amministrazione finanziaria a carico della società a fini Ilor, è tenuto, oltre che al pagamento della quota d'imposta Irpef imputabile, alla pena pecuniaria per infedele dichiarazione, ai sensi dell'allora vigente articolo 46 del Dpr n. 600 del 1973, poiché la pena viene irrogata per la semplice volontarietà della condotta, indipendentemente dalla sussistenza di dolo o colpa (in senso conforme, Cassazione n. 7549/2004, n. 9461/2002, n. 2554/1997, n. 3890/1995).

La posizione della Corte è la stessa anche in presenza di una società in accomandita, permanendo il diritto di controllo del socio nei confronti dell'operato dell'amministratore (sentenze nn. 18820/2006, 21570/2005, 17492/2002, 2899/2002, 2699/2002) nonché, ovviamente, il diritto dello stesso a contestare il maggior reddito accertato nei confronti della società di cui è partecipe.

Tale condivisibile conclusione è, in ogni caso, dettata dalle norme di diritto positivo. Secondo l’articolo 5, comma 1, del Dpr n. 917/1986, infatti, “i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”, mentre in base all'articolo 2291 del codice civile “nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali”.


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