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Giurisprudenza

Dopo l’acquiescenza alla sentenza,
inammissibile l’istanza di condono

L’intesa intervenuta in fase contenziosa preclude la fruizione del condono riguardo agli atti di riscossione conseguenti alla pretesa oggetto dell’accordo

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Secondo la sentenza della Corte regolatrice del diritto 19 ottobre 2012, n. 19861, la presentazione dell’istanza di definizione agevolata ex articolo 16 della legge n. 289/2002, non inficia ex post l’iscrizione a ruolo di una pretesa tributaria per Iva che, anzi, in caso di contestazione, può dar luogo alla lite pendente, presupposto di applicazione della legge sul condono. Pertanto, ove sia intervenuta transazione in sede processuale tra il contribuente e l’ufficio finanziario sulla rinuncia all’impugnazione del primo soggetto, la successiva iscrizione a ruolo non può formare oggetto di definizione agevolata della lite pendente in quanto non è controversia sull’accertamento, ma sulla sola riscossione.
 
La questione oggetto della sentenza della Corte di cassazione in commento attiene all’interpretazione dell’articolo 16 della legge n. 289 del 2002, il cui terzo comma, ai fini che qui interessano, per la definizione delle liti pendenti ivi regolata, dispone che lite pendente è quella avente ad oggetto avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione delle sanzioni e ogni altro atto di imposizione, per i quali atti alla data di entrata in vigore della suddetta legge sia stato proposto l’atto introduttivo del giudizio.
Nel caso di specie tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria era intervenuto un accordo -dalla sentenza in rassegna qualificato in termini di transazione - secondo cui il soggetto privato avrebbe espresso acquiescenza alla sentenza della Commissione regionale a lui sfavorevole, mediante rinuncia al ricorso per cassazione. La Suprema corte ricorda che l’acquiescenza si manifesta con l’esecuzione, anche parziale, del decisum e si cita il precedente di legittimità espresso nella decisione della terza sezione civile 27 gennaio 2012, n. 1181, secondo la quale l’acquiescenza manifesta la volontà di avvalersi degli effetti negoziali della transazione, i quali effetti “sono tutti quelli prodotti dall'accordo raggiunto, volto a disciplinare un complessivo assetto d'interessi, composto con le determinazioni alla fine raggiunte per effetto delle reciproche concessioni”.
 
La pretesa del contribuente di ritenere lite pendente quella relativa alla riscossione dei tributi scaturenti da una sentenza passata in cosa giudicata (ovvero, rectius, destinata a essere intoccabile per volontà delle parti processuali) è senza fondamento anche a volere scegliere la prospettiva ermeneutica di un’interpretazione la più lata possibile. Infatti la fase di riscossione - ossia di quel procedimento impositivo che sia meramente esecutorio di una pretesa già oggetto di contraddittorio, procedimentale o processuale che sia - non rientra tra le liti pendenti. In questo senso si vedano le sentenze 12 aprile 2006, n. 8579 (e le successive conformi 8 maggio 2006 n. 10535, 28 luglio 2006 n. 17213, 13 novembre n. 24194, 20 febbraio 2009 n. 4129, 21 dicembre 2009 n. 26857 e n. 26858, 31 gennaio 2011 n. 2211, 18 febbraio 2011 n. 3959 e n. 3960), per le quali, se l’avviso di liquidazione impugnato costituisce l’unico atto con il quale l’Agenzia delle Entrate ha esercitato la pretesa tributaria contestata dalla contribuente, ne deriva che - a prescindere dalla forma e dalla terminologia adoperata - esso vada qualificato come atto impositivo, suscettibile di definizione agevolata ai sensi dell’articolo 16 della legge n. 289 del 2002.
 
Tale conclusione non è intaccata, ma anzi confermata dal principio di diritto affermato esplicitamente dalla sentenza in commento pel quale la presentazione dell’istanza di definizione agevolata ex articolo 16 della legge n. 289/2002 non inficia ex post l’iscrizione a ruolo di una pretesa tributaria per Iva che, anzi, in caso di contestazione, può dar luogo alla lite pendente, presupposto di applicazione della legge sul condono. Difatti il ruolo è sempre validamente emesso, dovendo dipendere la fruibilità o meno della fattispecie condonistica dalla natura della pretesa avanzata con tale atto di riscossione. Pertanto, nessun dubbio che, se il ruolo non avesse avuto ad oggetto - come, invece, nel caso di specie si è verificato - la riscossione di somme dovute a titolo di definizione del precedente giudizio, l’istanza di condono ex articolo 16 citato sarebbe dovuta essere accolta in quanto somme richieste a seguito di accertamento.
 
Ciò che convince meno della pronuncia in nota è la giustificazione che una diversa interpretazione, peraltro estranea già alla lettera normativa, che paralizzi l’esercizio della pretesa erariale di pagamento entrerebbe in attrito con la giurisprudenza comunitaria espressa nella decisione 17 luglio 2008, C-132/06. Difatti viene estrapolata l’affermazione - par. 39 - che la libertà degli Stati membri nella scelta dei modi da impiegare per assicurare il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi d’imposta, “è limitata dall'obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all'interno di uno degli Stati membri, che nell'insieme di tutti loro”.
È da ricordare, difatti, che la citata pronuncia comunitaria aveva dichiarato che la Repubblica italiana, prevedendo in maniera generale e indiscriminata agli articoli 8 e 9 della legge n. 289/2002 (legge finanziaria per il 2003) la rinuncia all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, ha violato gli obblighi a essa imposti dagli articoli 2 e 22 della sesta direttiva Iva e dall’articolo 10 Ce.
 
Invero ciò che è da contrastare è l’interpretazione nazionale che è stata offerta dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza citata da questa in rassegna, 17 febbraio 2010 n. 3673, per la quale gli articoli 8 e 9 della legge n. 289/2002, concernono misure di definizione dell’imposta a seguito di accertamento, mentre il successivo articolo 16 riguarda la definizione delle liti pendenti, in funzione di una riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri che non hanno alcun collegamento con la definizione dell’imposta. Da ciò l’effetto che non si rende applicabile alla disciplina delle liti pendenti la sentenza della Corte di giustizia CE 17 luglio 2008, n. C-132/06, con la quale è stata ritenuta incompatibile con l’articolo 10 del Trattato Ce e con gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva in materia di Iva i citati articoli 8 e 9 della legge n. 289/2002 per rinuncia all’accertamento del tributo. E’ da evidenziare, sotto il profilo fattuale, che le sezioni unite della Suprema corte non hanno rinviato alla Corte di giustizia della Comunità europea la questione della compatibilità con l’articolo 10 del Trattato istitutivo della Comunità europea e con gli articoli 2 e 22 della direttiva Cee n. 388 del 1977 (sesta direttiva Cee sull’Iva), della disciplina nazionale sulla definizione delle liti pendenti contenuta nell’articolo 16 della legge n. 289/2002, offrendo un’interpretazione comunitariamente orientata loro non demandata, soltanto per evitare il rischio dell’ingolfamento del contenzioso tributario, a seguito di necessaria esclusione dell’estinzione del giudizio e, quindi, di prosecuzione degli stessi fino alle loro estreme conseguenze (ossia il giudizio per cassazione).
 
 
a cura di “Giurisprudenza delle Imposte” edita da Assonime
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