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Giurisprudenza

Dubbi sulle scritture da 10 e lode
quando la gestione è irragionevole

Le decisioni dell’imprenditore sono insindacabili, tuttavia il Fisco può diffidare della veridicità di quelle scelte chiaramente in contrasto con gli interessi dell’azienda

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E’ legittimo l’accertamento fondato sugli studi di settore se dalla contabilità, pur formalmente corretta, emergono operazioni antieconomiche che tradiscono una “gestione inverosimile negli anni”.
Questo il principio affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 19550 del 9 novembre.
 
La vicenda
La Commissione tributaria regionale, in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate contro la decisione del giudice di prime cure, aveva respinto l’opposizione di una società a responsabilità limitata relativa a un avviso di accertamento per Irpeg e Iva riguardanti il 2003, emesso a seguito dell’attività istruttoria della Guardia di finanza.
In particolare, a parere dei giudici di secondo grado, dalle risultanze delle scritture contabili emergeva una perdurante antieconomicità della gestione aziendale, nonostante i dati risultanti dagli studi di settore fossero stati ridimensionati sulla scorta della media con il ricarico dichiarato e gli elementi emersi dalle altre imprese operanti nel settore della vendita di veicoli.
 
Avverso la sentenza della Ctr, il contribuente proponeva ricorso per cassazione, lamentando la violazione di norme di legge, oltre che l’omessa, nonché insufficiente e contraddittoria, motivazione circa i fatti decisivi del processo.
Per il ricorrente, infatti, gli studi di settore costituiscono una metodologia astratta che va contemperata con la realtà economica dell’impresa, mentre i giudici di appello avevano fondato il proprio convincimento soltanto su un ricarico astratto facendo riferimento persino alle annualità precedenti.
 
La pronuncia
Con la sentenza 19550 del 9 novembre, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il contribuente al pagamento delle spese di giudizio.
 
Nonostante l’inammissibilità dei motivi di ricorso per la loro palese genericità, i giudici ne hanno comunque evidenziato l’infondatezza in quanto, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenze 16430/2011 e, sezioni unite, 26635/2009), in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può – come prevede l’articolo 39 del Dpr 600/1973 – fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta, sia sugli studi di settore.
In quest’ultimo caso, l’ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendo basarsi anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente, come accaduto nel caso di specie.
 
Peraltro, ha precisato la Corte suprema, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico/induttivo del reddito d’impresa previsto dall’articolo 39, primo comma, lettera d), del Dpr 600/1973, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente.
Parimenti, pur di fronte a una contabilità regolarmente tenuta, è possibile accertare ricavi superiori a quelli dichiarati, se la percentuale di ricarico applicata dal contribuente è inferiore a quella mediamente applicata nel settore di appartenenza, fino a raggiungere livelli di abnormità e/o di irragionevolezza (Cassazione, sentenza 15310/2000).
 
Pertanto, in tali casi è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere delle prova a carico del contribuente (Cassazione, sentenza 11645/2001).
 
In sostanza, se è vero che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente insindacabili, tuttavia il Fisco non è tenuto a credere che un imprenditore agisca in modo antieconomico. Quando si scopre un comportamento antieconomico dell’imprenditore, è lecito quanto meno dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, con la conseguenza che l’ufficio può presumere maggiori ricavi o minori costi e l’onere della prova si sposta sulla parte privata (Cassazione, sentenza 6337/2002).
Per la Corte suprema, dunque, di fronte alla contestazione della veridicità ed esattezza delle registrazioni, è il contribuente che deve dimostrare l’inerenza e la ragionevolezza economica di ogni singola operazione, circostanza che nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità non è avvenuta.
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