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Giurisprudenza

Due società, ma una è fasulla.
Un solo progetto: frodare il fisco

Compie reato l’amministratore di un’impresa e rappresentante legale di un’altra che, sfruttando il suo doppio ruolo, utilizza finte transazioni commerciali per evadere le tasse

due pillole
Risponde di dichiarazione fraudolenta il legale rappresentante di una società e, al tempo stesso, amministratore di fatto di un’altra impresa, che ricorre all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti emesse da quest’ultima al fine dell’evasione dell’imposta.
Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 37349 del 12 settembre.
 
Il fatto
Un contribuente era stato ritenuto colpevole, dal Tribunale territorialmente competente, del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 2 del Dlgs 74/2000 (capo A) e del reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti disciplinato dall’articolo 8 (capo B) del medesimo decreto, in concorso con altro soggetto.
Secondo l’autorità inquirente, infatti, l’imputato, legale rappresentate di una Srl e amministratore di fatto di una Sas, approfittando del suo status, aveva fatto ricorso all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla seconda società a favore della prima, al fine dell’evasione delle imposte dirette e indirette.
 
Nel processo dinanzi ai giudici di merito di primo grado era stata, altresì, prosciolta la titolare della società in accomandita, perché la condotta da lei tenuta non costituisce, secondo l’ordinamento penale, reato. Nel contempo, i giudici condannarono l’amministratore alla pena detentiva di un anno e otto mesi di reclusione.
Detta pena fu poi ridotta dalla Corte di appello che, riformando parzialmente la sentenza di rango inferiore, affermava l’avvenuta prescrizione del reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, mentre, per quanto concerne il succitato capo A), riconosceva la colpevolezza del reo limitatamente a un solo periodo di imposta.
 
Avverso la sentenza d’appello, il professionista proponeva ricorso per cassazione argomentando la pretesa in diversi punti.
L’imputato lamentava l’errata applicazione della legge, ex articolo 606, lettera b), del codice di procedura penale, e il vizio di motivazione della sentenza ex articolo 606, lettera e), cpp.
In sostanza, la Corte avrebbe omesso, secondo la difesa, di dare opportuna risposta alle motivazioni del ricorso avverso la sentenza di primo grado, non illustrando le ragioni del rigetto e le questioni inerenti l’effettività delle operazioni commerciali poste a supporto delle fatture emesse dalla società in accomandita, ritenuta quest’ultima, dai giudici, non operativa e avente, quindi, la funzione di interposizione fittizia diretta alla sola emissione di fatture false per operazioni non esistenti.
 
Per quanto concerne la reale esistenza della Sas, controllata di fatto, come accennato, dal professionista, il ricorrente rappresenta nel ricorso per cassazione come la Corte d’appello, a parer suo, non avesse correttamente valutato le prove testimoniali prodotte a sostegno dell’effettiva operatività dell’azienda, comprovata anche dalla serie di regolari pagamenti effettuati dalla Srl alla società in accomandita e dagli ordini di merce compiuti per via telematica.
In sostanza, i giudici di secondo grado, secondo la tesi dell’amministratore, si erano fermati a compiere un mero rinvio per relationem alla prima sentenza. Il ricorrente, inoltre, contestava la mancata applicazione, da parte dei giudici, del dettame legislativo dell’articolo 9 del Dlgs 74/2000, che vieta la doppia incriminazione per gli stessi fatti.
 
La Cassazione, previo attento esame dei motivi proposti nel secondo ricorso e delle motivazioni della sentenza della Corte d’appello, ha preventivamente chiarito che i giudici di merito non sono incorsi nella carenza di motivazione della sentenza, ex articolo 606, lettera e), cpp, perché, in sede decisionale, non hanno compiuto un mero rimando alla sentenza di rango inferiore.
Infatti, chiarisce il Collegio supremo, i giudici di merito non si erano limitati a sottolineare come gli argomenti dell’appellante fossero la mera riproposizione delle tesi presentate in primo grado, ma avevano approfondito i fatti in causa attraverso l’analisi delle fatture emesse dalla società apparentemente venditrice e l’esame delle prove testimoniali prodotte dal contribuente per dimostrare la non fittizietà delle operazioni commerciali poste in essere.
 
Inoltre la Corte, sposando in toto quanto deciso in appello riguardo alla proposizione di una tesi alternativa della difesa, chiarisce che, in tal caso, le argomentazioni proposte dalla parte devono necessariamente raggiungere un livello di probabilità tale da poter neutralizzare sul piano logico giuridico quanto sostenuto dalla pubblica accusa e ciò avviene quando i fondamenti valutativi del materiale probatorio e gli elementi ricostruttivi dei fatti non consentono di ritenere accertati i presupposti del reato.
In buona sostanza, una volta escluso che la Corte d’appello abbia omesso di dare risposta alle censure mosse dall’appellante, le ragioni date nella prima e nella seconda sentenza di merito si saldano in un unico complesso di motivazioni, che può essere smontato dalla Cassazione solo in presenza di vizi radicali del percorso argomentativo, tali da comportare un’insanabile contraddittorietà o manifesta illogicità.
 
Per quanto concerne la questione del divieto di duplicazione dei fatti imputati, il Collegio, che si è già espresso in tal senso in più riprese, ha voluto effettuare un preciso distinguo tra il divieto di concorso dell’utilizzatore nel reato commesso da un soggetto diverso dal soggetto emittente, dall’ipotesi antigiuridica, che si realizza quando l’utilizzatore abbia parte attiva nella condotta di emissione, quale titolare o contitolare della società emittente la documentazione fiscalmente rilevante. In tal caso, chiarisce la Corte, si ravvisa un unico disegno criminoso composto da diversi reati eventualmente unificabili tra loro.
 
In virtù di quanto detto, la Cassazione non ha accolto il ricorso presentato dall’amministratore legale e fittizio delle due società, riconoscendo a suo carico la colpevolezza del reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, per un solo periodo di imposta, essendo l’altro prescritto, aumentando la sanzione lievemente dal minimo edittale per intensità del dolo e per l’entità delle operazioni.
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