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Giurisprudenza

È rappresentanza e non pubblicità
la “mostra” dei prodotti da fumo

Corretta, secondo i giudici di legittimità, la qualificazione dell’Agenzia delle entrate riguardo alle spese sostenute per l’acquisto di espositori di sigarette, senza aspettative di un ritorno commerciale

espositori sigarette

Anche in considerazione del divieto di pubblicità dei prodotti da fumo, ai fini delle imposte dirette e dell’Iva costituiscono spese di rappresentanza quelle sostenute per l’acquisto di scansie ed espositori di sigarette collocate presso le rivendite di tabacchi. Così si è espressa la Cassazione, tornando sulla nota distinzione tra spese di pubblicità e di rappresentanza, con la sentenza n. 13031 del 14 maggio 2021.

La fattispecie oggetto del giudizio
Giudicando su due ricorsi riuniti, nella sentenza in commento la Cassazione è tornata ancora una volta sui criteri in base ai quali distinguere tra spese di pubblicità e di rappresentanza. In particolare, il giudizio aveva per oggetto la deduzione di costi, secondo l’Agenzia erroneamente qualificati come spese di pubblicità, sostenuti per l’acquisto di scansie e attrezzature simili utilizzate per esporre sigarette presso le rivendite di tabacchi.
In accoglimento del gravame della società, una nota multinazionale produttrice di tabacco, la Ctr aveva qualificato le spese come pubblicitarie e ciò alla luce sia dell’onerosità degli accordi con le rivendite (con l’obbligo per queste ultime di rispettare la destinazione d’uso dei beni e di garantirne la custodia) che della correlazione con la produzione di ricavi.
Ripercorrendo la giurisprudenza più recente relativa al criterio discretivo tra le due ipotesi, la Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate e ha anche riformato il capo di sentenza con il quale erano state annullate le sanzioni per obiettiva incertezza normativa.

La distinzione tra spese di pubblicità e di rappresentanza e le conseguenze fiscali della qualificazione
Dopo aver ricordato che rientra nell’ambito del giudizio di legittimità anche il controllo della corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ovviamente fermo restando l’accertamento dei fatti compiuto dal giudice di merito, la Corte ha ribadito che costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere l’immagine dell’impresa e a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per iniziative tendenti, anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti o servizi specifici.
La differenza tra le due categorie deve essere, quindi, apprezzata in base alla diversità, anche strategica, degli obiettivi: costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio della società, fornendone un’immagine positiva e prestigiosa in termini di organizzazione e di efficienza, ma senza dar luogo a una aspettativa di ritorno commerciale. La pubblicità, pertanto, non può esaurirsi nella sola promozione dell’impresa, come accade qualora una casa di moda fornisca abiti griffati a Vip senza che sia previsto un obbligo giuridico di indossarli (Cassazione, n. 8121/2016, citata nella motivazione).
Le conseguenze della qualificazione sono particolarmente rilevanti sotto il profilo fiscale.
Ai sensi dell’articolo 108 (ex articolo 74), comma 2, del Tuir, oggetto della pronuncia della Corte, le spese di rappresentanza potevano essere dedotte nella misura di un terzo del loro ammontare, per quote costanti nell’esercizio di sostenimento e nei quattro successivi. La legge finanziaria 2008, modificando l’articolo 108, comma 2, Tuir, ha stabilito la deducibilità integrale nell’esercizio di sostenimento delle spese di rappresentanza (definite come “spese per erogazioni a titolo gratuito di beni e servizi”), demandando l’individuazione dei requisiti di inerenza e congruità all’emanazione di un decreto ministeriale (Dm 19 novembre 2008). A seguito dell’articolo 9 del Dlgs n. 147/2015, i parametri di congruità rispetto a proventi e ricavi della gestione caratteristica trovano fonte direttamente nell’articolo 108.
Le spese di pubblicità sono integralmente deducibili nell’esercizio di sostenimento del costo o in cinque esercizi in quote costanti, secondo la scelta effettuata in bilancio, ma per effetto della riforma di cui al Dlgs 139/15 non sono più capitalizzabili, a meno che non costituiscano costi di impianto e di ampliamento ai sensi del principio contabile OIC24.

La decisione della Corte di Cassazione. Il divieto di pubblicità dei prodotti da fumo
Talvolta (Cassazione, decisione n. 10910/2015) si assegna rilevanza decisiva alla gratuità o onerosità (da intendersi come assenza o presenza di una controprestazione) del contratto alla base della spesa: si sarebbe al cospetto di rappresentanza nel primo caso, e di pubblicità nel secondo.

Sul punto la Ctr aveva aderito alla tesi della pubblicità in virtù dell’onerosità del contratto, quest’ultima ravvisata nel fatto che il comodatario, la tabaccheria, si era obbligato a collocare gli espositori nei propri locali e a curarne la custodia garantendone la destinazione d’uso. La sentenza, tuttavia, aderisce al principio (così anche Cassazione n. 27482/2014) secondo cui l’assenza di gratuità non assume carattere decisivo ai fini della qualificazione delle spese dedotte, “non sussistendo una presunzione assoluta che fa discendere dall’onerosità del rapporto l’esistenza di un collegamento obiettivo ed immediato tra le stesse e l’aspettativa diretta di un maggior ricavo”. A ogni modo, le obbligazioni contemplate dal contratto tra produttore e rivenditore sono quelle “tipiche” del contratto di comodato, che non si pongono in rapporto sinallagmatico con la concessione in comodato del bene, ma costituiscono limiti al suo godimento.
Inoltre, la Commissione regionale aveva ravvisato la natura pubblicitaria nell’inidoneità della spesa ad accrescere (genericamente) il prestigio della società, atteso che il cliente non può conoscere il nome del fornitore degli espositori e che la finalità, in ultima analisi, è quella di incrementare la vendita delle sigarette esposte sulle scansie.

Quanto al primo aspetto, la Cassazione ha osservato che la conclusione cui sarebbe dovuta pervenire la Ctr era quella opposta, in quanto solo i segni distintivi (invece assenti) avrebbero potuto soddisfare la finalità promozionale e, comunque, non era stato accertato che gli espositori accogliessero solo i prodotti della contribuente. In altri termini, la relazione tra la categoria merceologica (le sigarette) di cui si assume l’aumento delle vendite per effetto dell’esposizione e le “specifiche sigarette prodotte da “quello specifico produttore” era soltanto indiretta.
Infine, a livello sistematico, la Corte ha opportunamente valorizzato la disciplina del divieto di pubblicità sia diretta che indiretta dei prodotti di fumo, prevista sin dalla legge n. 165/1962 e poi dalla legge n. 52/1983 tuttora vigente, inferendone che, per un principio di coerenza dell’ordinamento, non può essere fiscalmente riconosciuta la deduzione per un’attività, quella pubblicitaria, non consentita.

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