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Giurisprudenza

È reato di dichiarazione infedele
l’indebita fruizione del regime Pex

Inutile invocare l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto, che costituisce un’ipotesi residuale rispetto ai comportamenti fraudolenti e simulatori tipizzati dal decreto legislativo n. 74/2000

pex

Legittima la condanna per il reato di dichiarazione infedele per l’indebita fruizione del regime Pex. E ciò perché il legale rappresentante è esperto di alta finanza, mentre il regime di partecipation exemption non risulta applicabile in mancanza del requisito della commercialità in capo alle società partecipate: non è credibile che l’imputato compia operazioni che realizzano plusvalenze per milioni senza approfondire le caratteristiche delle società partecipate dalla holding di cui cedere le quote. Non si tratta di un errore di valutazione delle plusvalenze sul piano giuridico-tributario, ormai depenalizzato, ma di una vera e propria elusione fiscale, né giova invocare l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto, il quale costituisce un’ipotesi residuale rispetto ai comportamenti fraudolenti e simulatori tipizzati dalle fattispecie penalmente rilevanti di cui al Dlgs n. 74/2000.
Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 20001 del 20 maggio 2021, con cui ha rigettato il ricorso del legale rappresentante di una spa, confermando il decreto di sequestro preventivo disposto in relazione ai reati di cui agli articoli 2 e 4 del Dlgs n. 74/2000.
 
Confermata, dunque, l’ordinanza del Tribunale del riesame di conferma parziale del decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca in via diretta nei confronti della persona giuridica e per equivalente sui beni della persona fisica indagata per i reati di cui agli articoli 2 e 4 del richiamato decreto legislativo.
 
Con il proprio ricorso in Cassazione, l’indagato denunciava violazione di legge, in relazione agli articoli 1 e 4 del Dlgs n. 74/2000 e 87 del Tuir, per aver il Tribunale del riesame ritenuto che la contestata indebita fruizione del regime della "partecipation exemption" integri la fattispecie di dichiarazione infedele.
Secondo il ricorrente, la deduzione della minusvalenza era indubbia, non potendo quindi essere integrato il reato di cui all’articolo 4, che ormai fa riferimento solo a elementi passivi inesistenti. Inoltre, avrebbe dovuto essere applicata la causa di esclusione della punibilità di cui al comma 1-bis del predetto articolo 4, secondo cui “Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti..., della non deducibilità di elementi passivi reali”. In ultimo, censurava la pronuncia del Tribunale, per aver omesso qualsiasi indagine in ordine all’elemento soggettivo avendo espresso, sul punto, un’osservazione del tutto apodittica in ordine all’indebita fruizione del regime fiscale Pex.
 
La pronuncia della Corte di legittimità
Nel rigettare il ricorso, la Cassazione avalla il ragionamento del Tribunale del riesame secondo cui, nel caso concreto, pesa l’accertamento dell’Agenzia delle entrate che recupera a tassazione Ires circa 8 milioni per un anno d’imposta e oltre 6 per quello successivo. Grazie alla Pex la plusvalenza generata dalla cessione delle quote di partecipate prima compare tra gli elementi attivi del reddito, ma poi il 95% viene portato in diminuzione come componente negativo, che riduce la base imponibile. Il punto è che, nella specie, le partecipate sono società che non possiedono il requisito prescritto dall’articolo 87, comma primo lettera d) del Tuir: si tratta di piccole aziende in forte crisi economica, magari con un solo dipendente, ma con un patrimonio nettamente superiore all’entità dei ricavi dichiarati dall’attività produttiva; praticamente esercitano il mero godimento di immobili. Era, quindi, improbabile che l’imputato avesse posto operazioni produttive di plusvalenze milionarie senza accertarsi delle caratteristiche e condizioni economiche delle società partecipate dalla holding di cui intendeva cedere le quote, onde verificare il regime di tassazione applicabile a una così tanto ingente somma.
Non si tratta, evidentemente, di un mero errore di valutazione giuridico-tributaria in ordine alla classificazione di plusvalenze fiscalmente indeducibili (e come tale riconducibile nella causa di esclusione del reato di cui all’articolo 4, comma 1-bis del Dlgs n. 74/2000) ma di un’operazione dissimulante un elusione fiscale.
 
Del reato, in tema di misure cautelari, l’indagine del Tribunale del riesame o della Cassazione, in ordine alle condizioni di legittimità della misura adottata, non può tradursi in una decisione anticipata delle questioni di merito relative alla responsabilità della persona sottoposta a indagini per il reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza e alla gravità degli stessi; non è necessario, quindi, valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona, nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire l’astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato (cfr Cassazione, n. 18491/2018).
 
Quanto alla rilevanza penale dell’abuso del diritto, ricordiamo che la questione ha trovato soluzione con l’articolo 10-bis della legge 212/2000, norma che attiene all’esclusione della rilevanza penale dell’abuso: secondo il comma 13, del predetto articolo 10-bis, “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”. Ne consegue che, nelle ipotesi di contestazione in base alla nuova normativa, il contribuente non potrà essere chiamato a rispondere di un reato tributario. La norma pone fine, quindi, ai dubbi interpretativi.
 
L'argomento che con maggiore forza veniva invocato, per negare ogni rilevanza penale alle condotte elusive, era la presunta incompatibilità di tale rilevanza con il principio di determinatezza (o tassatività) delle norme penali.
La Cassazione ricorda, sul punto, che sussiste il fumus del reato di cui all’articolo 4 del Dlgs n. 74/2000 in presenza di un quadro indiziario importante e che, in ogni caso, l’abuso del diritto, in ambito penale, ha da sempre rilevanza residuale rispetto alle disposizioni concernenti condotte fraudolente, simulatorie o finalizzate a creazione e utilizzo di documentazione falsa, per cui esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (cfr Cassazione, n. 40272/2015).

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