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Giurisprudenza

Elusivo il conferimento d’azienda
se poi si cedono le quote societarie

L’articolo 20 del Testo unico sul registro “attribuisce preminente rilievo all’intrinseca natura e agli effetti giuridici dell’atto, rispetto al suo titolo e alla sua forma apparente”

Laddove l’Amministrazione finanziaria riqualifica come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una società, non è tenuta a provare l’intento elusivo delle parti, poiché i due negozi hanno identica funzione economica, consistente nel trasferimento del potere di godimento e disposizione dell’azienda da un gruppo di soggetti a un altro gruppo o individuo.
Il principio è stato riaffermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 8542 del 29 aprile 2016, in linea con numerose precedenti pronunce.
 
La vicenda processuale
Il contenzioso esaminato dalla Suprema corte trae origine dai ricorsi proposti avverso avvisi di liquidazione con i quali l’ufficio contestava alla società Alfa e al terzo acquirente delle quote, che i negozi – registrati nella medesima data – con i quali
  • Alfa aveva dapprima conferito il ramo d’azienda in una società di nuova costituzione, Beta
  • Beta aveva successivamente ceduto le relative quote di partecipazione ad un soggetto terzo,realizzavano in realtà un’unica operazione avente a oggetto la cessione di un ramo d’azienda, da assoggettare come tale all’imposta di registro.
La Ctp di Milano accoglieva i ricorsi proposti dalle parti coinvolte.
A seguito di appello, la Ctr Lombardia confermava la decisione di primo grado, ritenendo, in particolare, affetto da nullità l’avviso di liquidazione notificato al terzo acquirente delle quote della società Beta, sul presupposto che tali atti impositivi avrebbero dovuto essere notificati alla società Beta, destinataria del conferimento d’azienda.
 
Avverso tale sentenza, l’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso in Cassazione, eccependo la violazione di legge e, più specificamente, degli articoli 20 e 57 del Dpr 131/1986.
 
La decisione
La Corte di cassazione, con la pronuncia in argomento, ha ritenuto fondata la censura mossa dall’Amministrazione finanziaria e corretta la notificazione dell’avviso di liquidazione alla società Alfa e al terzo acquirente delle quote di partecipazione.
In particolare, alla luce della ricostruzione operata dall’ufficio come unico negozio di cessione d’azienda, in forza dell’articolo 20 del Dpr 131/1986 (ai sensi del quale, “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”), la sussistenza della titolarità passiva dell’obbligazione tributaria deve essere rinvenuta in capo ai soggetti che, nella prospettazione dell'Amministrazione finanziaria, erano le parti sostanziali del negozio di cessione effettivamente realizzato.
 
La società neocostituita Beta, invece, è priva di legittimazione passiva, in quanto le relative quote di partecipazione risultano appunto l’oggetto (immediato) del negozio di cessione tra le parti che sono i soggetti passivi dell'imposta.
 
Inoltre, la Corte suprema ha evidenziato che in una fattispecie, quale quella in esame, di cessione di azienda, l’articolo 20 “attribuisce preminente rilievo all’intrinseca natura ed agli effetti giuridici dell'atto, rispetto al suo titolo ed alla sua forma apparente, sicché l’Amministrazione finanziaria può riqualificare come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una società, senza essere tenuta a provare l’intento elusivo delle parti, attesa l'identità della funzione economica dei due contratti, consistente nel trasferimento del potere di godimento e disposizione dell'azienda da un gruppo di soggetti ad un altro gruppo o individuo (Cass. 24594/2015)”.
 
Osservazioni
La sentenza in commento si pone in linea con l’orientamento consolidato che la Corte di cassazione ha espresso in relazione alla tassazione, ai fini dell’imposta di registro, della cessione d’azienda che venga realizzata dalle parti attraverso più atti, con i quali – in primo luogo – si conferisce l’azienda o un ramo della stessa a un soggetto (sovente di nuova costituzione) e, successivamente, quest’ultimo cede le relative quote di partecipazione a un terzo[1]. Poiché l’imposta di registro ha per oggetto il negozio giuridico e non l’atto documentale, essa richiede l’interpretazione unitaria del negozio medesimo, anche se frazionata in atti distinti (Cassazione, sentenza 2636/2016).
 
In tale ipotesi, infatti, ciò che rileva è l’effetto giuridico finale che si realizza, poiché la disciplina dell’imposta di registro è imperniata sul canone stabilito dall’articolo 20 del Dpr 131/1986, ovvero che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente"; in tal modo, essa annette rilievo preminente, nell'imposizione del negozio, alla sua causa reale ad alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti” (Cassazione, sentenze 1405/2013, 23584/2012, 10273/2007, 10660/2003, 2713/2002).
 
Invero, come rilevato più volte dalla giurisprudenza di legittimità, la scelta del legislatore di privilegiare – nella contrapposizione fra la intrinseca natura e gli effetti giuridici e “il titolo o la forma apparente di essi” – la sostanza dell’operazione implica che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria, di guisa che, anche se non si può prescindere dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali, nella individuazione della materia imponibile ha preminenza assoluta la causa reale sull’assetto cartolare” (Cassazione, sentenze 14900/2001, 10660/2003, 3481/2014 e ordinanza 24594/2015).
 
Le medesime argomentazioni si rinvengono nella recente sentenza 9582/2016, nella quale la Corte di cassazione ha fatto riferimento alla disciplina sopravvenuta in tema di abuso del diritto di cui all’articolo 10-bis della legge 212/2000[2].
 
In particolare, nella citata sentenza si afferma che “l’art. 20 D.P.R. 131 cit. non è disposizione che dal legislatore sia stata predisposta al recupero di imposte «eluse», questo perché l'istituto dell’ «abuso del diritto» d’imposte in attualità disciplinato dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis presuppone una mancanza di «causa economica» che non è invece prevista per l'applicazione dell'art. 20 D.P.R. n. 131 cit.”.
Si tratta, invece, secondo la Corte, di norma che “… semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l'atto o il «collegamento» negoziale in ragione del loro «intrinseco». E cioè in ragione degli effetti «oggettivamente» raggiunti dal negozio o dal «collegamento» negoziale, come per es. può avvenire con il conferimento di beni in una Società e la cessione di quote della stessa che se «collegati» potrebbero essere senz'altro idonei a realizzare «oggettivamente» gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo”.
 
[1] Nella richiamata ordinanza 24594/2015, la Corte suprema ha statuito che “la cessione totalitaria delle quote di una società ha la medesima funzione economica della cessione dell'azienda sociale. Entrambi tali contratti tendono infatti a realizzare l'effetto giuridico del (e trovano la loro causa concreta nel) trasferimento dei poteri di godimento e disposizione dell'azienda sociale da un gruppo di soggetti (i partecipanti alla società che cedono le loro quote) ad un altro soggetto, o gruppo di soggetti (l'acquirente, o gli acquirenti, della totalità delle quote sociali). Il contratto di cessione totalitaria delle quote di una società è dunque assimilabile, ai fini dell'imposta di registro, al contratto di cessione dell'azienda sociale, senza che al riguardo sia necessario, al contrario di quanto erroneamente affermato nella sentenza gravata, che l'Agenzia delle entrate fornisca in giudizio la "prova certa dell'intento elusivo”.
[2] L’articolo 10-bis recante “Disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”, inserito dall’articolo 1 del Dlgs 128/2015, dispone che “1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni. 2. Ai fini del comma 1 si considerano:
 a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato;
 b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario.
 3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente. 4. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.”
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