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Giurisprudenza

Esportatori abituali: non basta
la sola dichiarazione d’intento

La società accertata ha omesso il controllo “critico” della documentazione ricevuta dai cessionari e non l’ha integrata con ulteriori interrogazioni da banche dati pubbliche

In caso di cessioni all’esportazione nei confronti di esportatori abituali, la non imponibilità Iva non è subordinata alla sola dichiarazione d’intento, occorrendo che il cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’eventuale attività fraudolenta, ossia di non essersene potuto rendere conto, pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere. In caso, poi, di operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente che invochi la propria buona fede deve, comunque, provare di aver rispettato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, essendo irrilevante la regolarità della contabilità e dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.
 
La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 1988 del 24 gennaio 2019, ha chiarito alcuni rilevanti aspetti in tema di esportatori abituali e presupposti soggettivi di partecipazione alle frodi, anche in caso di operazioni soggettivamente inesistenti.
Nel caso di specie, la Ctr della Campania aveva rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli, relativamente a un avviso di accertamento per Iva, Ires e Irap, per l’anno di imposta 2004, emesso nei confronti di una società a cui si contestavano operazioni soggettivamente inesistenti ed evasione Iva per operazioni con soggetti che l’ufficio riteneva non avessero i requisiti di esportatore abituale.
 
La contribuente ricorreva alla Ctp, impugnando l’avviso di accertamento e deducendo che le operazioni attive e passive erano reali e che, comunque, essa era in buona fede e ignara di ogni ipotesi fraudolenta.
I giudici di primo grado accoglievano il ricorso e, a seguito di appello dell’Agenzia, la Ctr confermava la decisione di primo grado, ritenendo, tra l’altro, che non gravasse sulla contribuente l’onere di verificare in capo ai propri danti causa l’effettivo possesso dei requisiti di esportatori abituali, essendo questo potere e onere di indagine riservato all’Amministrazione.
 
Infine, l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra l’altro, quanto al recupero dell’Iva per fatturazione, senza addebito di imposta, di cessioni asseritamente non imponibili ex articolo 8 del Dpr 633/1972, poste in essere da società prive dei requisiti di esportatore abituale, l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa l’asserita estraneità della società alla frode fiscale, laddove, in particolare, i giudici di appello avevano ritenuto non incombente sulla contribuente la verifica della correttezza fiscale delle società clienti/fornitrici.
 
Secondo la Corte suprema, il ricorso era fondato.
Evidenziano, infatti, i giudici di legittimità che, come già affermato anche in altri precedenti della Corte, “In tema d'IVA, la non imponibilità delle cessioni all'esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali, prevista dall'art. 8, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972, non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d'intento dell'esportatore ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell'assenza delle condizioni legali per l'applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere” (Cassazione, pronunce n. 19896/2016 e n. 176/2015).
Era, quindi, irrilevante l’argomentazione svolta dalla Ctr con riferimento all’archiviazione del procedimento penale originato per i medesimi fatti e all’effettività delle operazioni di magazzino relative alle operazioni contestate, dal momento che non era in contestazione che le operazioni fossero state realmente eseguite.
La Ctr, secondo la Corte di legittimità, aveva erroneamente affermato che non incombeva sulla contribuente l’onere di effettuare verifiche sul possesso dei requisiti di esportatori abituali e sulla reale operatività dei soggetti economici con cui operava, essendo tale affermazione in contrasto con la giurisprudenza della Cassazione e non avendo così i giudici di appello applicato correttamente le regole in tema di riparto dell’onere della prova.
 
Per i giudici di piazza Cavour, inoltre, era fondata anche la seconda censura, avanzata dall’amministrazione in sede di ricorso per cassazione, e relativa alla ripresa per operazioni soggettivamente inesistenti, con cui si lamentava, ancora, la violazione del principio dell’onere della prova per avere la Commissione tributaria regionale ritenuto che non spettasse alla contribuente alcuna verifica sulla natura di cartiere delle proprie danti causa.
Evidenziano, infatti, che, come ribadito anche di recente dalla Cassazione, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, e anche nell’ambito di una frode carosello, le operazioni sono sempre effettive e l’Agenzia ha l’onere di provare, anche in via presuntiva, solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ossia la sua non operatività, oltre che la consapevolezza del destinatario di essere parte di un’evasione, laddove questi avrebbe potuto e dovuto conoscere l’inesistenza del contraente e dovendo, comunque, lo stesso contribuente, secondo ragionevolezza e proporzionalità, provare di aver rispettato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, essendo peraltro, a tal fine, irrilevante la regolarità della contabilità e dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (cfr Cassazione, decisione n. 9851/2018).
 
Nel caso di specie, la Ctr non si era attenuta a tali principi, affermando da un lato, espressamente, la natura di mere cartiere delle società coinvolte (e non sussistendo, quindi, dubbi circa l’elemento oggettivo) e dall’altro, pur dando conto di importanti elementi probatori a favore della (anche solo presumibile) consapevolezza della frode da parte della contribuente (come, ad esempio, il fatto che fosse stata accertata l’anomala circostanza che ben un terzo del suo volume d’affari si fosse sviluppato nei soli confronti delle sette società cartiere, pur avendo essa circa 5mila clienti), non confrontandosi con tali risultanze probatorie.
 
Tanto premesso, in ordine al caso in giudizio, preme evidenziare alcune importanti considerazioni, in merito alle due fattispecie sopra rilevate, soprattutto sotto il profilo del concetto di buona fede del contribuente e partecipazione consapevole all’operazione fraudolenta.
Quanto all’onere della prova in caso di operazioni con esportatori abituali, l’ufficio, in ipotesi come quella sopra esaminata, addebita, in particolare, alle società oggetto di accertamento l’omesso controllo “critico” della documentazione ricevuta dai cessionari e la mancata integrazione della stessa con ulteriori interrogazioni da banche dati pubbliche (per esempio, Registro imprese).
In altri termini, la contribuente deve provare di aver adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere per assicurarsi che la cessione posta in essere non la renda partecipe di una frode, dovendosi ritenere che la stessa non possa astenersi dal compiere una più approfondita indagine (senza limitarsi al solo esame degli elementi cartolari) per capire, attraverso la consultazione di ulteriori dati facilmente reperibili, se la dichiarazione di intento sia veritiera oppure fraudolenta.
 
Sul punto, la Corte suprema ha infatti precisato che solo quando la dichiarazione esista e non sia ideologicamente falsa o, comunque, il cedente non sia consapevole di tale falsità (cioè non abbia la consapevolezza che l’operazione non gode dei presupposti di non imponibilità), per detto cedente l’operazione deve ritenersi non imponibile, a prescindere dalla prova dell’effettiva avvenuta esportazione della merce, non potendosi, in caso contrario, applicare l’articolo 8 del Dpr 633/1972 per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale (cfr Cassazione, n. 13293/2013 e n. 7389/2012).
E del resto, anche secondo i principi fissati dalla giurisprudenza comunitaria, è richiesto che l’operatore economico provi di non essere stato a conoscenza del fatto che in realtà non erano state soddisfatte le condizioni legali per l’applicazione del regime della non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto, pur facendo prova di tutta la diligenza di un commerciante avveduto (Corte giustizia 2112/08, causa C-271106, Netto Supermarket Gmbh; cfr Cassazione, n. 19896/2016).
 
Quanto, poi, alla seconda fattispecie (operazioni soggettivamente inesistenti), l’amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga a operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, che il contribuente ne era a conoscenza o, usando l’ordinaria diligenza, avrebbe dovuto esserlo; ove l’amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava poi sul contribuente la prova contraria di avere adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (cfr Cassazione, n. 9851/2018 e n. 9721/2018).
 
Le disposizioni comunitarie non consentono, del resto, una normativa nazionale che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti, sulla base del solo fatto che la fattura è stata emessa da un soggetto da considerare inesistente, tranne, appunto, nel caso in cui si dimostri che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione di imposta.
E non essendo, peraltro, sufficiente limitarsi a dedurre che la merce è stata consegnata e rivenduta e la fattura è stata effettivamente pagata, circostanze sempre presenti in una frode fiscale perpetrata mediante un’operazione soggettivamente inesistente.
 
Né, infine, a fronte della incontestata natura di “cartiera” della società emittente una fattura, la constatazione della corrispondenza del prezzo fatturato a quello corrente di mercato può essere sufficiente al fine di provare la buona fede soggettiva, ossia la non conoscibilità della frode da parte del cessionario (cfr Cassazione, ordinanza n. 12615/2018).
 
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