Exit tax: sulla riscossione "pesa"
il trasferimento della società
L'intervento della Corte di Giustizia europea riguarda il trasferimento della sede di una società di diritto olandese in un altro Stato membro
Il 15 dicembre 2000, la società olandese ha trasferito la propria sede amministrativa e la propria attività economica nel Regno Unito e qui, diversamente da quanto accadeva nei Paesi Bassi, non si sono realizzati gli utili sui cambi con il fiorino olandese o con l'euro.
Nel momento in cui la società ha trasferito la sua sede, il diritto olandese prevede che gli utili su cambi siano assoggettati a una "imposta in uscita" sulle società (cd. "exit tax"). Di conseguenza, le autorità fiscali olandesi hanno effettuato una liquidazione finale delle plusvalenze latenti esistenti al momento del trasferimento della sede della società, richiedendone il pagamento immediato.
Ma la società ha contestato tale decisione ritenendola in contrasto con il principio della libertà di stabilimento e il Gerechtshof Amsterdam (la Corte d'appello dei Paesi Bassi), investito della controversia, ha deciso di sottoporre tale questione interpretativa alla Corte di giustizia.
La sentenza della Corte
La Corte afferma che:
a) "l'art. 49 TFUE impone la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento. Anche se secondo la loro formulazione, le disposizioni del Trattato in tema di libertà di stabilimento mirano ad assicurare il beneficio della disciplina nazionale dello Stato membro ospitante, esse ostano parimenti a che lo Stato … di provenienza ostacoli lo stabilimento in un altro stato membro … di una società costituita secondo la propria legislazione…" (C-264/96; C-298/05; C-157/07; C-96/98). Nella fattispecie esaminata, il trasferimento di sede di una società di diritto olandese in un altro Stato membro ha comportato l'immediata tassazione, con uno svantaggio finanziario rispetto ad una società analoga che, trasferendo la propria sede all'interno del territorio dello Stato, non avrebbe avuto tassate plusvalenze di tal genere. Tale disparità di trattamento è tale da scoraggiare una società dal trasferire la propria sede in un altro Stato membro e costituisce una restrizione in linea di massima vietata dalle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento;
b) "risulta da una giurisprudenza costante che una restrizione alla libertà di stabilimento può essere ammessa soltanto se giustificata da motivi imperativi di interesse generale …" Ed è tale il diritto degli Stati membri di definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione equilibrata del loro potere impositivo (C-374/04; C- 487/08) nell'eliminare le doppie imposizioni internazionali, in attesa di adeguate disposizioni di armonizzazione adottate dall'Unione (C-446/03; C-231/05). Di conseguenza, il trasferimento della sede amministrativa di una società da uno Stato membro a un altro non può portare lo Stato di provenienza a rinunciare al suo diritto di assoggettare a imposta una plusvalenza generata nell'ambito della sua competenza fiscale prima di tale trasferimento. Può però consentirgli di differirne la riscossione;
c) "è sproporzionata una normativa di uno Stato membro … che impone ad una società che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la riscossione immediata, al momento stesso di tale trasferimento …", non consentendole la scelta tra il pagamento immediato dell'imposta (con uno svantaggio in termini finanziari), e il pagamento differito, inclusi gli eventuali interessi previsti dalla normativa nazionale applicabile (con oneri amministrativi, legati all'individuazione degli attivi trasferiti).
Le conclusioni
La Corte ha evidenziato che una restrizione alla libertà di stabilimento può trovare giustificazione alla luce di un motivo imperativo di interesse generale e cioè della idoneità delle disposizioni nazionali a garantire un'equa ripartizione del potere impositivo tra lo Stato di provenienza (che tassa i plusvalori latenti sino al momento del trasferimento della sede) e lo Stato di destinazione (che tassa le plusvalenze effettivamente realizzate secondo la propria legislazione interna).
La normativa italiana
Anche in Italia, la normativa in materia di "exit tax" (articolo 166 Tuir), costituisce, di per sé, un disincentivo al trasferimento delle attività economiche in un altro Stato membro e quindi una restrizione alla libertà di stabilimento, come evidenziato nella denuncia dell'Associazione Italiana Dottori Commercialisti alla Commissione europea presentata nel 2009. Tuttavia, in Italia, come in Olanda, l'esigenza di contrastare la riduzione delle entrate fiscali, che tenga conto della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati potrebbe qualificarsi come "ragione imperativa di interesse generale", idonea a giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento.
In tal senso sembra essersi orientato anche il Consiglio (risoluzione dicembre 2008): se lo Stato di uscita si riserva il diritto di tassare i plusvalori latenti corrispondenti alle attività in possesso del contribuente, calcolati come differenza tra il valore venale di tali attività alla data del trasferimento e il loro valore contabile, lo Stato di accoglienza prende il valore venale alla data del trasferimento (cd "stet up") per calcolare il successivo plusvalore in caso di cessione, rappresentando tale combinazione una possibilità per garantire l'assenza di doppia imposizione.