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Giurisprudenza

Farmacia al costo di un vitalizio:
legittimo tassare la plusvalenza

Pur non trattandosi di una somma fissa, il suo ammontare può essere determinato mediante individuazione del suo valore normale facendo ricorso a procedure di matematica attuariale

immagine del logo di una farmacia
Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, è configurabile una plusvalenza da avviamento commerciale (ex articolo 86 Tuir) anche nel caso di cessione a titolo oneroso di un’azienda (nella fattispecie, una farmacia) il cui corrispettivo è rappresentato dalla costituzione di una rendita vitalizia e va imputato al momento di stipulazione del contratto.
Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza n. 3518 dello scorso 14 febbraio.
 
I fatti
L’ufficio ha rettificato il reddito d’impresa di una contribuente, recuperando a tassazione Irpef la plusvalenza da avviamento commerciale conseguita, nell’anno 1998, a seguito della vendita della sua farmacia. In particolare, acquirente e alienante avevano inserito nel contratto di vendita la clausola con la quale, in luogo del pagamento, i due soci, figli della contribuente cedente, assumevano l’obbligo di corrisponderle una rendita vitalizia annua con pagamento di rate trimestrali a favore della cedente e del marito e diritto di accrescimento reciproco al coniuge superstite.
 
In relazione a tale assetto negoziale, l’ufficio recuperava la plusvalenza realizzata per la cessione del valore di avviamento, non dichiarata dalla cedente perché, a suo parere, non aveva valore certo. Di diverso avviso l’ufficio: pur non trattandosi di un corrispettivo in misura fissa, il suo valore certo poteva essere determinato mediante capitalizzazione della rendita vitalizia, e cioè attraverso l’individuazione del suo valore normale facendo ricorso a procedure di matematica attuariale.
In entrambi i gradi di giudizio, le Commissioni tributarie hanno ritenuto non tassabile la plusvalenza sulla base della indeterminatezza della durata della rendita che, essendo collegata alla vita dei beneficiari, non avrebbe consentito di calcolare a priori il valore della stessa plusvalenza.
 
L’Agenzia ha impugnato la sentenza di secondo grado in cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione degli articoli 86, 109 (comma 2, lettera a), e 52 del Tuir ritenendo che, ai fini dell’imputazione del corrispettivo, occorreva considerare il momento di stipulazione del contratto e tenere conto della natura onerosa e della configurazione giuridica dell’atto traslativo, non assumendo alcun rilievo il carattere aleatorio della rendita, comunque determinabile sulla base delle tabelle di capitalizzazione risultanti dalla normativa fiscale.
La Corte ha accolto il ricorso e ha affermato che “in tema di imposte sui redditi, è configurabile una plusvalenza tassabile anche nel caso di cessione di azienda (nella specie una farmacia) con costituzione di una rendita vitalizia a favore del cedente, ex art. 1872 c.c….” (Cassazione, n. 3518/2018).
 
Osservazioni
I giudici di legittimità sono stati chiamati a stabilire:
  • se è tassabile la plusvalenza conseguente alla cessione dell’avviamento commerciale per la quale, in luogo le corrispettivo, è prevista la costituzione di una rendita vitalizia
  • in caso positivo, quando procedere a tassazione.
Con riferimento all’an, la Cassazione ha dato continuità al proprio orientamento consolidato (pronunce nn. 10801/2007, 11229/2011, 1175/2015, 5886/2013, 27179/2014 e 387/2016) secondo il quale, ex articoli 54, comma 3, e 76, Tuir, vigenti ratione temporis, anche nel caso di cessione a titolo oneroso di un’azienda, il cui corrispettivo sia rappresentato dalla costituzione di una rendita vitalizia, ai fini dell’imputazione del corrispettivo, occorre considerare il momento di stipulazione del contratto, tenendo conto della natura intrinsecamente onerosa e della configurazione giuridica dell’atto traslativo. E ciò senza che assuma alcun rilievo il carattere aleatorio della rendita ex articolo 1872 cc, poiché quest’ultima può costituire il corrispettivo di un’alienazione patrimoniale che, pur assicurando una utilità incerta quanto all’ammontare concreto delle erogazioni che verranno eseguite, ha un valore economico agevolmente accertabile con riferimento a calcoli attuariali, secondo criteri riconosciuti dall’ordinamento giuridico.
 
La Corte, quindi, non rinviene alcun ostacolo nel quantificare l’ammontare complessivo del corrispettivo (anche se la rendita vitalizia non ha durata temporale definita) e nel raffrontarlo al valore dell’azienda. Né riscontra alcun fenomeno di doppia imposizione nei confronti del cedente.
La complessa operazione negoziale esaminata, infatti, ha dato origine a due presupposti impositivi autonomamente rilevanti:
  • la plusvalenza, realizzata all’atto della stipulazione del contratto di cessione d’azienda, quale differenza tra il “valore normale” della rendita vitalizia e il valore dell’azienda ceduta, e che assume specifica rilevanza ai fini della determinazione del reddito d’impresa, da tassare secondo competenza
  • la rendita vitalizia che, configurando un reddito assimilato a quelli di lavoro dipendente, è autonomamente tassabile.
In particolare, il rapporto tra i due presupposti è nell’articolo 48, comma 7, Tuir, vigente ratione temporis, (poi trasfuso nell’articolo 48-bis, lettera c), Tuir (ora articolo 50) che, nel sottoporre a tassazione la quota di rendita, individua(va) forfettariamente nel 60% la componente reddituale della stessa, escludendo dall’imposta il capitale tassato all’atto del trasferimento (Cassazione, nn. 10801/2007 e 27179/2014).
Proprio la previsione normativa dei limiti di tassazione della rendita escludeva il rischio di doppia imposizione e, anzi, rafforzava la legittimità dell’autonoma ed equa imposizione della plusvalenza.
E il rischio escluso sia sul piano formale che su quello sostanziale. Sul piano formale, infatti, la suddetta percentuale era chiaro indice della scelta legislativa di riconoscere tale quota come “componente reddituale” goduta dal percettore e il residuo 40%, quale parte sia del il rientro del capitale erogato dal beneficiario per la costituzione della rendita (non soggetta, per sua natura, ad alcuna forma di imposizione), sia della plusvalenza vera e propria, realizzata con la cessione di azienda e già assoggettata a tassazione quale componente del reddito d’impresa.
Anche sul piano sostanziale, poi, la Corte ha concluso che non era stato violato il divieto di doppia imposizione poiché non vi era stata concreta liquidazione della seconda imposta, né l’amministrazione aveva ritenuto di avere diritto a ricevere il doppio pagamento (Cassazione, nn. 1175/2012 e 5886/13).
 
Affermata la tassabilità della plusvalenza da avviamento, la Corte è stata chiamata a verificarne il “quando”. Considerata la natura onerosa dell’atto traslativo e la determinabilità del valore della rendita sulla base delle tabelle di capitalizzazione risultanti dalla normativa fiscale (articolo 46, Dpr 131/1986), i giudici di legittimità hanno affermato che il corrispettivo doveva essere imputato per competenza, con riferimento al momento di stipulazione del contratto, ex articolo 75 Tuir (Cassazione, 10801/2007).
L’articolo 54 Tuir (ora 86), infatti, collegando la tassabilità delle plusvalenze alla relativa cessione a titolo oneroso, ossia al negozio che faccia uscire il bene dalla sfera patrimoniale dell’imprenditore, considera rilevante, ai fini impositivi, il momento di perfezionamento del contratto per effetto del consenso delle parti (Cassazione, n. 20544/2013).
 
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