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Giurisprudenza

I “fastidi” per i controlli in sede
non limitano le verifiche esterne

L’utilizzo di operazioni bancarie ingiustificate, inoltre, e le relative presunzioni legali, prescindono dal modus operandi dei verificatori e non perdono efficacia probatoria

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Per il calcolo del termine di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, ai sensi dell’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente), bisogna considerare i soli giorni di effettiva presenza e non sic et simpliciter quelli trascorsi tra l’inizio e la fine delle operazioni di verifica, computando, quindi, anche quelli impiegati per controlli eseguiti al di fuori della sede.
L’aspetto dirimente attiene comunque alla mancata previsione da parte della legge di una specifica sanzione collegata alla violazione di tale termine sia in termini di inutilizzabilità degli elementi probatori raccolti sia in tema di invalidità derivata del successivo atto impositivo.
Inoltre, l’efficacia della presunzione legale rappresentata dai versamenti e dai prelevamenti bancari non giustificati prescinde dal modus operandi e dal tipo di attività istruttoria prescelto nel caso concreto dalla Amministrazione finanziaria, trattandosi di scelta organizzativa riservata alla discrezionalità della stessa che, se attuata nel rispetto del principio di legalità, non priva la documentazione bancaria reperita della valenza probatoria conferitale dalla legge.
Sono questi i principi che si desumono dalla sentenza della Cassazione 7584 del 15 aprile 2015, conforme alla posizione espressa dall’Amministrazione finanziaria e avallata da altre pronunce della giurisprudenza di legittimità.
 
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
La Ctr della Sicilia, rigettando l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado, annullava un avviso di accertamento rilevando, tra gli altri vizi, l’illegittima acquisizione durante la verifica fiscale di documentazione bancaria utilizzata in assenza della specifica autorizzazione prescritta per l’effettuazione di indagini bancarie, nonché la protrazione della verifica fiscale, dal 22 gennaio al 2 agosto 2002, in violazione del termine massimo di trenta giorni stabilito dall’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000.
 
Col successivo ricorso per cassazione, l’Amministrazione finanziaria deduceva, tra l’altro, la violazione del richiamato articolo 12, sottolineando il fatto che la norma non commini alcuna sanzione di invalidità all’avviso di accertamento emanato a seguito di verifica protrattasi oltre il termine di trenta giorni in essa previsto.
 
Secondo la Corte suprema, il motivo è infondato per una serie di ragioni:
  • innanzitutto, in base a un’interpretazione letterale e sistematica della norma. Alla violazione della stessa, infatti, non è ricollegata alcuna conseguenza sanzionatoria né in termini di inutilizzabilità delle prove raccolte né in merito all’invalidità (derivata) del successivo avviso di accertamento. Dal punto di vista sistematico vi sarebbe il collegamento col successivo comma 6 che, con riferimento a eventuali irregolarità commesse dai verificatori durante l’ispezione, prevede la possibilità per il contribuente di rivolgersi al Garante affinché lo stesso eserciti i poteri di richiamo previsti dal successivo articolo 13
  • fuori luogo appare anche l’accostamento alla disciplina (di cui al successivo comma 7) dell’accertamento emesso ante tempus, ovvero senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni che, secondo la Cassazione (a partire dalla sentenza, sezioni unite, 18184/2013), determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. È evidente, infatti, la differenza degli interessi sottesi, apparendo, nel caso di specie, sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale (attraverso l’invalidità dell’avviso di accertamento) a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione
  • in ultimo, la Cassazione aderisce all’orientamento per cui il termine de quo si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso la sede del contribuente escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche e attività eseguite in altri luoghi (cfr Cassazione, sentenze 14026/2012 e 23595/2011). È evidente, infatti, che il sistema di garanzie approntato dall’intero impianto dell’articolo 12 fa riferimento agli “accessi, ispezioni e verifiche fiscali” eseguiti “nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali”, con la conseguenza che tali garanzie operano esclusivamente nella predetta ipotesi.
Con un altro motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate deduceva la violazione dell’articolo 32, comma 1, nn. 6-bis e 7 del Dpr 600/1973, contestando l’obbligatorietà della preventiva autorizzazione all’espletamento delle indagini finanziarie ai fini dell’utilizzo (nei termini di presunzioni legali relative) dei documenti di natura “bancaria” (copie di assegni, matrici di libretti assegni, estratti contabili) reperiti in sede di accesso (regolarmente autorizzato) assieme ad altra documentazione extracontabile.
Anche questo motivo è stato ritenuto fondato: dopo aver richiamato la normativa in materia di indagini finanziarie, comprensiva degli aspetti procedurali, la Corte precisa che “il rinvenimento o la esibizione da parte del contribuente di documentazione bancaria custodita nei locali di esercizio dell'attività economica, esula del tutto dalla fattispecie sopra individuata, essendo riconducibile ai poteri di accesso ed ispezione, presso i locali destinati all'esercizio dell'attività economica… che consentono di estendere l'ispezione documentale a tutti i libri, registri, documenti e scritture che si trovano nei locali, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie”.
In altri termini, “la disciplina normativa della “presunzione legale juris tantum” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2)) prescinderebbe del tutto dal “modus procedendo e cioè dal tipo di attività istruttoria prescelto nel caso concreto dalla Amministrazione finanziaria ed attraverso il quale è stato possibile rinvenire ed acquisire la documentazione bancaria (accesso ed ispezione presso la sede della impresa; esibizione spontanea da parte del contribuente sottoposto a verifica; richiesta trasmissione documenti formulata alla banca; accesso ed ispezione documentale presso la banca; acquisizione di documentazione concernente il contribuente rinvenuta presso terzi), in considerazione della natura facoltativa della procedura stessa - costituente uno dei modi con cui gli uffici finanziari “possono” acquisire gli elementi utili per l'accertamento dei redditi”.
 
Di conseguenza la Cassazione ha cassato la sentenza della Ctr e, decidendo nel merito ai sensi dell’articolo 384 del cpc, ha rigettato il ricorso introduttivo del contribuente.

Ulteriori osservazioni
L’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000, nella sua originaria formulazione, stabiliva che “La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio, per specifiche ragioni”.
Una delle questioni interpretative maggiormente dibattute riguarda il calcolo del termine di permanenza dei verificatori che i contribuenti ritengono vada effettuato sulla base dei giorni complessivamente trascorsi tra l’inizio e la fine delle operazioni di verifica, indipendentemente da come e dove la stessa sia stata condotta.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate, con la circolare 64/2001, ha invece chiarito che “ai fini del computo dei giorni di permanenza di cui al comma 5 del citato art. 12, vanno considerati i giorni di effettiva presenza presso il contribuente a decorrere dalla data di accesso”.
 
La Cassazione ha optato, sostanzialmente, per la seconda tesi: con la sentenza 23595/2011 ha, infatti, precisato che “la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 5 […], nel fissare agli "operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria" il termine ("prorogabile per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio") di "trenta giorni lavorativi", regola unicamente la "permanenza" degli stessi "presso la sede del contribuente" quando "dovuta a verifiche": il termine in questione, quindi, assume rilevanza sol a seguito della somma dei "giorni lavorativi" di effettiva "permanenza ... presso la sede del contribuente"; il computo dello stesso, pertanto, diversamente da quanto ritenuto dai contribuenti (che si sono limitati a indicare la prima e l’ultima data del PVC), non può essere compiuto soltanto sulla base dei giorni trascorsi tra l’inizio e la fine delle operazioni di verifica, computando quindi anche quelli impiegati per verifiche eseguite al di fuori della “sede del contribuente”.
In altri termini, rilevano solamente i giorni di effettiva permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente in virtù del disagio arrecato all’ordinaria attività dello stesso.
 
La disposizione in esame ha subito, di recente, cambiamenti a opera dell’articolo 7, comma 2, lettera c), del Dl 70/2011 (decreto “sviluppo”). La norma di modifica, nel confermare l’orientamento della prassi e della giurisprudenza, ha aggiunto i due seguenti periodi al citato articolo 12, comma 5: “Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni lavorativi contenuti nell’arco di non più di un trimestre, in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente”.
A parere dei contribuenti, la nozione di “giorni di effettiva presenza” valida per il computo dei giorni di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, troverebbe applicazione soltanto con riferimento alle verifiche effettuate nei confronti delle imprese minori e dei lavoratori autonomi (per i quali è previsto il limite di quindici giorni nell’arco di tre mesi). Secondo questa tesi, la locuzione “in entrambi i casi” farebbe riferimento esclusivamente alle imprese “minori” e ai lavoratori autonomi per cui solo per tali categorie di contribuenti rileverebbero i giorni di effettiva presenza. Di contro, per le società in contabilità ordinaria, il limite di permanenza di trenta giorni deve essere inteso come riferito a giorni lavorativi consecutivi a decorrere da quello di accesso, prescindendo dai giorni di presenza effettiva dei verificatori presso la sede del contribuente.
 
In realtà, l’accoglimento di tale impostazione mal si concilierebbe con i principi di buon andamento ed efficacia dell’azione amministrativa (ex articolo 97 della Costituzione), posto che il legislatore ha previsto termini diversi evidentemente in funzione della presumibile maggiore complessità delle operazioni di controllo nei confronti dei contribuenti di maggiori dimensioni. Infatti, da tale interpretazione deriverebbe che la permanenza dei verificatori presso i contribuenti “minori”, per i quali si introduce un termine dimezzato (da trenta a quindici giorni), può protrarsi fino a un trimestre; diversamente, nel caso dei soggetti di maggiori dimensioni – per i quali rileverebbero i giorni di durata complessiva delle operazioni di verifica – anche in caso di proroga, la permanenza dei verificatori non potrebbe protrarsi oltre un periodo massimo di sessanta giorni, il tutto con effetti irragionevoli e contrari alla ratio della disposizione.
 
In ogni caso, quello del termine di permanenza rischia di diventare un falso problema, visto il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, cui del resto si conforma anche la pronuncia in commento, secondo cui il tempo massimo previsto per la durata delle verifiche fiscali ha natura meramente ordinatoria, in quanto nessuna norma lo dichiara espressamente perentorio. Pertanto, gli atti compiuti dopo il decorso di tale termine sono pienamente legittimi.
In particolare, a giudizio della suprema Corte, il termine di permanenza presso la sede del contribuente ha natura meramente ordinatoria “in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità di tali atti può ricavarsi dalla “ratio” delle disposizioni in materia potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione” (cfr Cassazione, sentenza 26732/ 2013 e, in senso conforme, 17002/ 2012 e 14020/2011).
Ne deriva, pertanto, che il mancato rispetto dei termini previsti dall’articolo 12 dello Statuto del contribuente non può determinare la nullità degli atti successivi, quali l’avviso di accertamento o il prodromico processo verbale di constatazione. Del resto, tale conclusione appare legittimata anche dal bilanciamento dei contrapposti interessi: se così non fosse, si legittimerebbe il venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del semplice disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza dei verificatori (cfr, sul punto, Cassazione, sentenza 17010/2013).
 
Per quanto concerne la problematica della necessaria, preventiva autorizzazione all’espletamento delle indagini bancarie per l’attribuzione agli elementi acquisiti (documenti da cui risultino versamenti e prelevamenti) della natura di presunzione legale relativa, si segnala l’esistenza di un precedente conforme.
Con la sentenza 25142/2009, la Corte di cassazione ha stabilito che la presunzione legale contenuta nell’articolo 32, comma 1, n. 2) del Dpr 600/1973, “per cui i movimenti di dare e di avere (versamenti e prelevamenti) risultanti da un conto corrente bancario rilevano ai fini dell’accertamento dell’imponibile, … non è necessariamente subordinata all’esperimento della procedura, stabilita dalla stessa norma, per l’acquisizione dei dati bancari”.
La Corte suprema ha, infatti, chiarito che “mentre la procedura per la raccolta dei dati – non univoca e non sempre vincolante in ogni passaggio – è disegnata da norme aventi contenuto propriamente rituale, la richiamata disposizione, in virtù della quale versamenti e prelevamenti bancari danno origine ad una presunzione legale relativa di maggior reddito non dichiarato (salva la prova di determinate circostanze contrarie), pur essendo inserita in un contesto descrittivo di modalità di raccolta, non ne condivide il carattere procedurale, ma riveste quello (sostanziale) derivante dall’applicazione in campo tributario di principi generali fissati negli artt. 2727 e 2728 c.c., giacché si tratta di presunzione che la legge trae da un fatto noto (versamento o prelevamento bancario) per risalire a un fatto ignorato (occultamento di reddito), dispensando da qualunque prova il fisco, a cui favore è stabilita. Ciò significa che, a prescindere dalla procedura di raccolta seguita, i dati bancari legittimamente acquisiti sono idonei a fondare la suddetta presunzione”.
 
Nella specie, quindi, il Collegio di legittimità ha ritenuto non necessaria la procedura per l’acquisizione dei dati bancari stabilita dall’articolo 32 del Dpr 600/1973 in un caso in cui l’ufficio aveva ricevuto copia dei conti bancari del contribuente tramite la Guardia di finanza, che li aveva acquisiti nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria.
 
In altri termini la Cassazione distingue nettamente gli aspetti procedurali dell’acquisizione dei documenti, rimessi alla discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria, trattandosi di scelta organizzativa a essa riservata, da quelli sostanziali rappresentati dalla natura e dal contenuto dei documenti rinvenuti nel corso dell’istruttoria regolarmente autorizzata: per questi ultimi, è la legge stessa che attribuisce il valore di presunzione legale relativa con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.
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