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Giurisprudenza

Fattura rinvenuta presso terzi.
L’omessa contabilizzazione è reato

L’imprenditore che non registra un documento che viene poi recuperato presso un suo cliente, compie il reato di distruzione e occultamento delle scritture contabili

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I giudici di legittimità hanno evidenziato che, dovendo la fattura essere emessa in duplice esemplare, il rinvenimento di una fattura presso il destinatario del documento può far senz’altro desumere che il mancato rinvenimento dell’altra copia presso il soggetto emittente sia conseguenza della sua distruzione o del suo occultamento, dal momento che il documento deve essere emesso in duplice copia. Ma non solo: l’illecito si consuma al di là del superamento della soglia di punibilità. Lo ha sancito la Corte di cassazione con la sentenza n. 39322 del 25 settembre 2019.
 
La vicenda processuale
Nell’ambito di un’attività di accertamento nei confronti di una ditta individuale dedita ad attività edile non erano state rintracciate, presso il titolare, fatture che invece risultavano esistenti presso le ditte che avevano avuto contatti il titolare. Ne conseguiva il configurarsi dell’illecito penale previsto dall’articolo 10 del Dlgs 74/2000 (Occultamento o distruzione di documenti contabili) e la condanna emessa dal Tribunale nei confronti dell’imprenditore.
La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava nei confronti del titolare della ditta, la pena per il reato di occultamento della contabilità  confermando che l’imprenditore al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva occultato o, comunque distrutto, delle fatture emesse. Avverso  la decisione dei giudici di appello l’imputato ha  proposto  ricorso  per cassazione con due motivi di impugnazione.
Col primo motivo il ricorrente ha eccepito l’estinzione del reato addebitatogli, per intervenuta prescrizione, che sarebbe maturata prima che gli venisse notificata la sentenza d’appello. Col secondo motivo è stata lamentata l’erronea  applicazione del Dlgs n. 74/2000, articolo 10 e dell’articolo 220  disp.  att.  cpp,  nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta  illogicità della motivazione. 
 
La decisione della Corte
Per quanto riguarda il primo motivo di impugnazione, la Corte precisa che ai fini del computo della prescrizione rileva il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna e non quello successivo del deposito della stessa, che contiene soltanto l’esposizione dei motivi in fatto e in diritto sui quali la decisione è fondata (Cassazione n. 38143/2014). E alla data della lettura del dispositivo della  sentenza d’appello non era maturata alcuna prescrizione.
 
In relazione poi al secondo e più pregnante motivo di ricorso la Corte sottolinea che l’articolo 10 del Dlgs 74/2000 non prevede soglie di punibilità; la norma, sanzionando l’obbligo di non sottrarre all’accertamento le scritture i documenti obbligatori, individua il bene giuridico tutelato nell’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente e anticipa la soglia di rilevanza  penale  alle condotte prodromiche all’evasione di imposta (Cassazione n. 3057/2007). Ne consegue, precisano i giudici, che non ha fondamento l’eccezione sulla mancata indagine in ordine alla volontà di superamento delle soglie.
 
Quanto  al  mancato  rinvenimento, presso il ricorrente, delle  fatture  nella  disponibilità  delle  ditte che avevano avuto rapporti commerciali con lo stesso la Corte precisa quanto segue.
Poiché la fattura deve essere  emessa  in  duplice esemplare, il rinvenimento di uno  di  essi  presso  il  terzo  destinatario dell’atto, come nel caso di specie, può far  desumere  che  il  mancato  rinvenimento dell’altra copia presso l’emittente sia conseguenza della sua distruzione o del suo occultamento (Cassazione n. 41683/2018).
Infatti la conservazione delle fatture, come  noto,  è  imposta,  ai  fini fiscali (articolo 39, comma 3 Dpr n. 633/1972, e dall’articolo 22 Dpr n. 600/1973) oltre che, a fini civilistici (articolo 2214, comma 2 del codice civile). È pacifico che la fattura debba essere emessa in  duplice  esemplare di cui uno è consegnato alla parte (articolo 21, comma 4, Dpr n. 633/1972).
 
Risponde, dunque, a canoni di logica desumere dal  rinvenimento  di  una fattura presso un terzo il fatto che di quel documento esista fisicamente una copia presso chi l’ha emessa.
 
Pertanto, sostengono i giudici, non è manifestamente illogico desumere dal mancato rinvenimento di detta copia la conseguenza della sua distruzione ovvero del suo occultamento  (Cassazione n. 41683/2018). Il reato può essere integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l’occultamento della documentazione non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore e senza necessità di reperire altrove elementi di prova (Cassazione n. 20748/2016).
 
Ad avviso dei giudici “l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando è necessario … procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante” (Cassazione n. 7051/2019).
 
Viene precisato inoltre che “la  previsione del dolo specifico richiesta per la sussistenza del delitto di cui all’articolo 10 del Dlgs 74/2000 richiede la prova della produzione di reddito e del volume di affari che possono desumersi, in base a norme di comune esperienza, dal fatto che l’agente sia titolare di un’attività commerciale” (Cassazione n. 51836/2018).
 
I giudici di legittimità hanno evidenziato inoltre che il reato di occultamento e distruzione di fatture o scritture contabili può essere contestato al professionista o imprenditore anche riguardo un solo e unico documento contabile e indipendentemente dal superamento della soglia di punibilità stabilita per legge per i cosiddetti reati tributari disciplinati dal Dlgs 74/2000.
La Corte ha, dunque, dichiarato inammissibile il ricorso condannando contestualmente il ricorrente al  pagamento delle spese processuali e della somma di duemila euro in favore della  Cassa delle ammende.

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