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Giurisprudenza

Finanziamento alla società:
oneroso fino a prova contraria

Secondo i giudici della Corte suprema la presunta corresponsione di interessi nei confronti del contribuente legittima la ripresa a tassazione della ritenuta di acconto non versata

In tema di imposte sui redditi, la dimostrazione della mancata percezione degli interessi attivi sulle somme date a mutuo incombe sul contribuente, con la conseguenza che – in difetto di tale prova – la società di capitali che abbia ricevuto un finanziamento dai propri soci ha l’obbligo di operare la ritenuta sugli interessi corrispettivi dovuti ai mutuanti, ai sensi dell’articolo 26 del Dpr 600/1973. Tale obbligo sussiste non solo nel caso in cui la corresponsione dei predetti interessi sia effettivamente avvenuta, ma anche quando essa sia soltanto presunta dalla legge. Questo il chiarimento fornito dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 3819 del 16 febbraio scorso.
 
La vicenda processuale
Con l’avviso di accertamento impugnato l’ufficio, in relazione all’anno d’imposta 2003, procedeva al recupero, nei confronti del contribuente – una società di capitali esercente l’attività di locazione immobiliare di beni propri – della ritenuta d’acconto sugli interessi passivi corrisposti ai soci a fronte di un finanziamento ricevuto.
 
In primo grado le doglianze di parte non trovavano accoglimento; per contro, la commissione tributaria regionale, in riforma della decisione della Ctp, riteneva, sul punto, che non vi fosse alcuna prova che i finanziamenti dei soci fossero fruttiferi e che il recupero della ritenuta sugli interessi fosse dunque illegittimo.
 
L’Agenzia ricorreva per la cassazione di detta pronuncia, lamentando la violazione dell’articolo 26, comma 5, del Dpr 600/1973, che prevede l’obbligo di operare una ritenuta, nella specie pari al 12,5% a titolo di acconto, sugli interessi e altri proventi corrisposti a persone fisiche residenti, e dell’articolo 45 del Tuir, che pone una presunzione di fruttuosità delle somme versate dai soci a titolo di finanziamento, dalla quale discende la piena legittimità del recupero delle ritenute sugli interessi, senza che l’ufficio sia tenuto ad accertarne l’effettiva corresponsione.
 
Con l’ordinanza in rassegna, la suprema Corte, richiamando il proprio consolidato orientamento, ha affermato la fondatezza del motivo di ricorso proposto dall’amministrazione fiscale. In particolare, i giudici di legittimità hanno osservato che “la dimostrazione della mancata percezione degli interessi attivi sulle somme date a mutuo incombe sul contribuente, già per il carattere normalmente oneroso del contratto di mutuo, quale previsto dall’art. 1815 c.c., nonché in virtù della presunzione fissata dal 2° comma dell’art. 45” del Tuir. Di qui la conseguenza che “la società di capitali che abbia ricevuto somme di danaro a titolo di mutuo dai propri soci ha l’obbligo di effettuare la ritenuta d’acconto sugli interessi corrispettivi dovuti ai soci mutuanti (…) ai sensi dell’art. 26 del D.P.R. 600/73”, non solo nell’ipotesi in cui la corresponsione di detti interessi sia effettivamente avvenuta, ma altresì “quando essa sia soltanto presunta dalla legge”.
 
Osservazioni
Per meglio comprendere il principio di diritto espresso dalla suprema Corte nell’ordinanza in commento, occorre preliminarmente rammentare che, ai sensi dell’articolo 1815 del codice civile, “salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante…”. La disposizione civilistica prevede, quindi, una presunzione legale di onerosità del contratto di mutuo. In ambito tributario, l’articolo 46 del Tuir stabilisce che “Le somme versate alle società commerciali (…) dai loro soci o partecipanti si considerano date a mutuo se dai bilanci o dai rendiconti (…) non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo”, mentre l’articolo 45, comma 2, dello stesso testo normativo precisa che “Per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto”. In mancanza di tali pattuizioni “gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta” e al tasso legale.
 
Dalle citate disposizioni si desume che:
  • il finanziamento erogato da un socio si ritiene conferito a titolo di mutuo, in assenza della prova di un diverso titolo che risulti dai bilanci o rendiconti della società
  • le somme erogate a titolo di mutuo si presumono fruttifere, salva la prova della gratuità del versamento.
Secondo l’orientamento ormai consolidato e prevalente nella giurisprudenza di legittimità, “In tema di imposte sui redditi, i versamenti fatti dai soci, se non formalmente deliberati in conto capitale ed infruttiferi, si presumono fruttiferi, salva la prova contraria gravante sul contribuente”, con conseguente obbligo per la società di effettuare la ritenuta d’acconto sugli interessi “indipendentemente dalla materiale erogazione degli stessi agli aventi diritto” (Cassazione, sentenze nn. 14573/2001, 13807/2005, 15869/2009, 20035/2015).
 
In merito al contenuto della prova contraria gravante sul contribuente, la Cassazione ha affermato che “siffatta prova non è libera, ossia non può essere data con qualsiasi mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme stabiliti tassativamente dalla legge”, che, come si è visto, richiede la dimostrazione di un diverso titolo del versamento, risultante dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società (Cassazione n. 2735/2011). Tale posizione è stata recentemente ribadita nella sentenza n. 17839/2016, ove si chiarisce che la presunzione di onerosità “può essere vinta solo in ragione di precisi elementi, ossia fornendo la dimostrazione richiesta della iscrizione in bilancio del versamento come fatto a titolo diverso dal mutuo”.
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