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Giurisprudenza

Il finanziamento personale
non salva dalla bancarotta

La continua immissione di denaro per consentire il proseguimento dell'attività imprenditoriale, integra il reato di natura fallimentare per aggravamento del dissesto

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Con la sentenza 32899 del 26 agosto, la Corte di cassazione ha stabilito che integra il reato di bancarotta per aggravamento del dissesto il comportamento dell'imprenditore che si ostina a finanziare con mezzi propri la società in perdita fin dal primo anno di attività, senza valutare le reali prospettive dell'impresa.

Il fatto
La vicenda è quella di due imprenditori soci di una società a responsabilità limitata i quali vengono condannati dal tribunale competente per bancarotta semplice con aggravamento del dissesto poiché gli stessi, fin dal primo anno di attività, avevano finanziato l'azienda in perdita con propri mezzi.  Ma la fiducia nel progetto non li aveva ripagati. Infatti, il dissesto finanziario dell'impresa continuava ad aumentare e così i debiti. Poi era scattato il fallimento e quindi le accuse per il delitto di bancarotta.

La sentenza di prime cure era stata poi confermata dalla Corte d'appello, nei cui confronti i due imprenditori propongono ricorso per Cassazione con il quale deducono violazione di legge in relazione alla ritenuta responsabilità  di aver aggravato il dissesto della società senza averne chiesto il fallimento, atteso che il giudice del riesame avrebbe male interpretato la nozione di dissesto, che sarebbe stata confusa con il passivo fallimentare. Infatti, a loro dire, il dissesto sarebbe il disordine difficilmente sanabile nell'attività della società, ma una tale situazione non si sarebbe verificata nella fattispecie concreta sia per la gestione corretta della società sia per la regolare tenuta delle scritture contabili. Del resto, non avrebbe dovuto essere sottovalutata la fiducia che i soci riponevano nel progetto imprenditoriale.


Motivi della decisione
La Corte di cassazione conferma la sentenza impugnata ed afferma il principio di diritto che nell'ambito dei reati fallimentari il dissesto è costituito da una condizione di squilibrio economico, finanziario e patrimoniale la quale, non affrontata in modo adeguato, può causare l'acuirsi  dell'esposizione debitoria all'origine dell'insolvenza.

La Sezione penale ha, infatti, reso definitiva la condanna motivando che per dissesto deve  intendersi,  non  tanto  una condizione di generico disordine dell'attività della società, quanto  una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo e ingravescente che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d'atto dell'impossibilità di proseguire l'attività, può comportare l'aggravamento inarrestabile della situazione debitoria.
Sostanzialmente, quindi, senza risultati economici la fiducia nel progetto aziendale non conta, rischiando la condanna per bancarotta l'imprenditore che continua caparbiamente a finanziare con mezzi propri la società in perdita senza valutare le reali prospettive e pregiudicando, così, gli interessi dei creditori.

La stessa Corte di cassazione ha altrove sottolineato (sentenza 6388/2011) che l'offesa provocata dal reato non può ridursi al mero impoverimento dell'asse patrimoniale dell'impresa, ma si  restringe alla diminuzione della consistenza patrimoniale idonea a danneggiare le aspettative dei creditori. Questi ultimi, persone offese, sono infatti l'indispensabile referente per lo scrutinio in discorso. In sostanza, è integrativa del reato non già la sottrazione di ricchezza che costituisce l'offesa del reato, quanto piuttosto quella che reca danno  alle pretese dei creditori.

Quindi nella vertenza in esame, ad avviso del Collegio, l'operato dei giudici dell'appello è ineccepibile, avendo gli stessi rilevato come fin dall'inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell'attività imprenditoriale dei due imputati con l'accumulo di perdite che avevano eroso l'intero capitale sociale, motivi sufficienti per la necessaria desistenza.

Del resto e in linea generale, la normativa del nuovo Testo unico imposte dirette, vigente dal 2004 (articoli 46 e 81),  ha riproposto la necessità  di prevedere disincentivi di natura fiscale  alla  cronica sottocapitalizzazione dell'impresa italiana. Infatti, il capitale sociale, insieme alle altre componenti  del patrimonio acquisito nel corso dell'esercizio dell'impresa, costituisce non solo lo strumento principe affinché la società possa fare ingresso nel mercato, dando atto agli affari progettati, ma anche la garanzia patrimoniale verso i creditori sociali ai sensi dell'articolo 2740 codice civile.


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