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Giurisprudenza

Il fine non giustifica i due mezzi,
la seconda condanna ci sta tutta

Affinché ci sia uguaglianza tra i sistemi usati per evitare il prelievo fiscale è necessario che coincidano, tra l’altro, il tempo, il luogo e il protagonista del delitto

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A parere della Cassazione “Non c’è violazione del principio del ne bis in idem se l’amministratore di società viene condannato una prima volta per il reato di omessa dichiarazione e una seconda volta per quello di distruzione od occultamento delle scritture”.
 
Evoluzione processuale della vicenda
Il tribunale di Brindisi, con sentenza del 30 gennaio 2012, dichiarava gli amministratori di una società responsabili del reato di cui agli articoli 81 e 110 del codice penale, e 10 del Dlgs 74/2000, poiché gli stessi, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, occultavano e/o distruggevano la documentazione contabile, così da non consentire la ricostruzione dell’effettivo volume di affari e del reddito di impresa.
 
La Corte di appello di Lecce, chiamata a pronunciarsi sulle impugnazioni ha ridotto la pena inflitta, ritenendo “il fatto di non particolare gravità”.
 
Gli imputati proponevano ricorso in Cassazione, tra gli altri per: violazione dell’articolo 649 cpp, secondo cui “l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”.
 
Pronuncia
La Cassazione, con la sentenza 42555 del 13 ottobre, ritiene il ricorso inammissibile, perché la Corte d’appello ha correttamente motivato e argomentato la concretizzazione del reato e l’ascrivibilità di esso in capo agli imputati.
In riferimento alla violazione del principio di ne bis in idem, a giudizio della Corte suprema, il motivo di ricorso appare manifestamente infondato.
Infatti, non può ritenersi che una sentenza di condanna, seppur prodotta in atti, costituisca un precedente utilizzabile per sostenere l’esistenza di un’ipotesi di ne bis in idem. Nel caso in esame, per l’appunto, si tratta di condotte e fattispecie di reato del tutto distinte, seppure finalisticamente collegate: la pronuncia richiamata, infatti, vedeva l’imputato condannato per omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, mentre, nel presente procedimento l’imputato è stato condannato per il reato di cui all'articolo 10 del Dlgs 74/2000, per avere occultato e/o distrutto le scritture contabili della società, al fine di non consentire la ricostruzione dell’effettivo volume di affari e del reddito di impresa.
 
A parere dei giudici di legittimità, “ai fini della preclusione connessa al principio del "ne bis in idem" l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento e nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. S.U.28/9/2005, n. 34655; Cass. 5/5/2006, n. 15578)”.
È indispensabile, pertanto, perché non si possa sottoporre a procedimento penale un soggetto precedentemente condannato (articolo 649 cpp), che si abbia corrispondenza della condotta del reato, dell’evento e del nesso di causalità tra la condotta e l’evento. Inoltre, è necessario che coincida il tempo, il luogo e la persona protagonista del reato.
Infatti, considerato che l’espressione “medesimo fatto” figura non solo nel testo dell’articolo 649, ma anche nelle disposizioni di cui agli articoli 28, comma 1, e 669, comma 1, del codice di rito, deve sottolinearsi che nella giurisprudenza di legittimità detta locuzione è stata costantemente intesa come “coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta oggetto dei due processi onde il "medesimo fatto" esprime l'identità storico-naturalistica del reato, in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell'evento e nel rapporto di causalità, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona”.
Invero, le imputazioni devono risultare connotate dalla totale coincidenza dei soggetti, delle condotte, dell’oggetto materiale del reato, del reato presupposto, nonché delle condizioni di tempo e di luogo dell’accadimento.
 
Nel caso concreto, la corrispondenza giustamente non è stata ravvisata dal giudice di merito, posto che la violazione, in relazione alla quale è stata resa la sentenza prodotta, ha riguardato una condotta (l’omessa dichiarazione) del tutto distinta e autonoma, sia sul piano naturalistico che su quello giuridico, rispetto a quella dedotta nell’ultimo giudizio (ossia, la distruzione e/o occultamento della documentazione contabile della società allo scopo di non consentire la ricostruzione dell’effettivo volume d’affari e del reddito d’impresa).
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