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Giurisprudenza

I fondi comuni di investimento
non sono “denaro” per l’eredità

Soldi, gioielli, mobilia per un importo pari al 10% del valore globale netto imponibile, anche se non dichiarati o certificati per un importo inferiore, sono “presuntivamente” compresi nell’attivo

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Ai fini della presunzione stabilita dall’articolo 9 del testo unico sull’imposta di successione e donazione, Dlgs. n. 346/1990, le quote dei fondi comuni di investimento non sono assimilabili al denaro, quindi concorrono come gli altri beni a determinare l’attivo ereditario e formano la base di calcolo della ulteriore percentuale del 10% prevista. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 22181 del 14 ottobre 2020.
La citata disposizione stabilisce che si presumono compresi nell’attivo ereditario “…denaro, gioielli, mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo inferiore.” 

Per effetto di questa presunzione:

  • se nella dichiarazione di successione non è indicato alcun importo per il denaro, la mobilia ed i gioielli, l’ufficio applicherà la presunzione, nella misura del 10% del valore netto imponibile della singola quota ereditaria
  • se nella dichiarazione di successione è indicato un importo inferiore al 10% del valore netto dell’asse ereditario, la presunzione sarà applicata in misura pari alla differenza dell’importo necessario al raggiungimento dell’ammontare previsto dalla presunzione
  • se nella dichiarazione di successione sono indicati denaro, mobilia e gioielli per un ammontare superiore al 10%, non sarà applicata alcuna maggiorazione.

Si tratta di una presunzione legale relativa e non assoluta, in quanto è ammessa la prova contraria. L’articolo 9 sopra richiamato, infatti, stabilisce che la presunzione non opera se da un inventario analitico, redatto a norma degli articoli 769 e seguenti del codice di procedura civile, risulta l’esistenza di tali beni per un importo diverso. Gli eredi, pertanto, attraverso un inventario analitico, possono dimostrare che il denaro, i gioielli e la mobilia, realmente esistenti nell’asse ereditario, hanno un valore inferiore al 10% dell’attivo.
La presunzione riguarda beni (denaro, gioielli, mobilia) che, nella maggior parte dei casi, sono presenti nel patrimonio della generalità degli individui e che, essendo facilmente occultabili, non possono essere agevolmente riscontrabili dal fisco ai fini dell’applicazione dell’imposta di successione.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 del 12 luglio 1967, ha affermato che la descritta presunzione non viola il principio della capacità contributiva, poiché “…è fondata sulla comune esperienza e risponde a principi di logica tanto rilevanti da legittimare la certezza giuridica della esistenza dei beni.” La stessa pronuncia ha rimarcato il fatto che i beni oggetti di presunzione sono beni facilmente occultabili, “…sfuggenti a qualsiasi accertamento fiscale”, ed in relazione ai quali vi è la necessità del legislatore di quantificare in maniera precisa la pretesa tributaria. Si è, quindi, ribadito che scopo della descritta presunzione è quello di eliminare contrasti e dare certezza al rapporto tributario.

Il caso oggetto della citata ordinanza riguarda una dichiarazione di successione nella quale erano state indicate anche alcune quote di fondi comuni di investimento. L’ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate presso il quale era stata presentata la dichiarazione, aveva calcolato la percentuale presuntiva del 10% sul valore dell’attivo ereditario, comprensivo del valore attribuito alle quote dei fondi comuni di investimento, caduti in successione.
Sia in primo (sentenza Ctp di Milano n. 259/43/2013) che in secondo grado (sentenza Ctr della Lombardia n. 3299/13/2014) i giudici tributari hanno accolto la tesi degli eredi secondo i quali la percentuale del 10% doveva essere calcolata sul valore dell’attivo ereditario al netto del valore delle quote dei fondi comuni.
L’Amministrazione finanziaria ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo la tesi secondo la quale le quote di un fondo comune di investimento non rientrano nella nozione di “denaro, gioielli e mobilia” e, pertanto, il valore di tali quote deve concorrere, unitamente agli altri beni ereditari, alla formazione della massa ereditaria, sul cui valore viene applicata la maggiorazione del 10% inerente ai beni mobili oggetto di presunzione.

La Corte di cassazione con l’ordinanza n. 22181 del 14 ottobre 2020 ha accolto la tesi erariale, evidenziando che:

  • ai fini fiscali l’attivo ereditario è costituito da tutti i beni e diritti che formano oggetto della successione esclusi quelli espressamente esentati dall’imposta
  • l’articolo 9 del Tus stabilisce, in via presuntiva, che nell’attivo ereditario sussistano denaro, gioielli e mobilia, per un importo pari al 10% del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario
  • tale disposizione è una norma speciale, riferita a beni specifici, caratterizzata da una “…connaturata facilità di occultamento
  • questa facilità di occultamento non è configurabile in relazione alle quote dei fondi di investimento mobiliare le quali, al pari delle altre forme di partecipazione societaria, sono facilmente tracciabili, e, quindi, in relazione ad esse non sussiste l’esigenza di ricorrere ad una presunzione, ai fini dell’applicazione dell’imposta di successione. Ciò è attestato anche dal fatto che l’articolo 16 del Tus, stabilisce, tra l’altro, anche i criteri per determinare il valore delle quote dei fondi di investimento. Tali criteri sarebbero inutili se operasse, anche in relazione alle quote dei fondi comuni, la presunzione di cui all’articolo 9 del Tus.

Alla luce di tali considerazioni è stato formulato il principio in base al quale, “le quote dei fondi di investimento mobiliare non rientrano nella nozione di “denaro gioielli e mobilia” di cui all’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 346 del 1990, sicché esse concorrono, analogamente agli altri beni dell’attivo ereditario, nella determinazione della base di calcolo della ulteriore percentuale del 10% prevista dalla suindicata disposizione”.

E’ stato, quindi, ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione emesso dall’ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate.

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