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Giurisprudenza

Frodi carosello, la buona fede non ferma la giostra

Non serve eccepirla per poter detrarre l'Iva relativa a operazioni inesistenti

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La buona fede si presume e la mala fede va provata. Il noto principio giuridico ha trovato un'opportuna precisazione nelle cosiddette "frodi carosello". I giudici della Commissione tributaria provinciale di Livorno hanno infatti escluso che, in materia di frodi Iva, il contribuente possa eccepire semplicemente la buona fede per farla franca; anzi, sono stati molto rigorosi nell'affermare che, se anche fosse esclusa la mala fede, l'imposta relativa a operazioni soggettivamente inesistenti non può essere comunque detratta.

Il caso che è stato sottoposto ai giudici livornesi, risolto con la sentenza n. 85 del 28 agosto 2007, riguardava un avviso di accertamento notificato a una società che svolge l'attività di commercio di autoveicoli. L'ufficio dell'agenzia delle Entrate aveva appurato che spesso la società acquistava da quattro operatori nazionali autoveicoli nuovi, provenienti, a loro volta, da un fornitore comunitario. In concreto, il meccanismo posto in atto era il seguente:

 

  • il soggetto comunitario vendeva regolarmente gli autoveicoli a quattro operatori italiani emettendo fattura non imponibile
  • gli operatori italiani non versavano l'Iva dovuta per l'immissione in consumo degli autoveicoli e li rivendevano alla società ricorrente esponendo in fattura un imponibile variabile dal 12 al 18 per cento in meno rispetto al costo dell'acquisto intracomunitario, addebitando l'Iva relativa
  • la società ricorrente acquistava gli autoveicoli di provenienza comunitaria, per poi rivenderli sul mercato, detraendo l'imposta a credito.

Le indagini di polizia tributaria avevano evidenziato che i primi cessionari nazionali degli autoveicoli erano in realtà "cartiere", cioè soggetti privi di sede, di struttura commerciale e di mezzi finanziari, e che il loro unico scopo era quello di interporsi nel settore degli acquisti intracomunitari di autoveicoli per effettuare le cosiddette "frodi carosello". Conseguentemente, l'atto di accertamento dell'Agenzia recuperava nei confronti della società ultima cessionaria l'Iva indebitamente detratta.
Per dovere di cronaca, l'accertamento conteneva anche rilievi minori in materia di imposte dirette sull'indeducibilità di alcuni costi.

La sentenza merita un approfondimento sulla questione della frode Iva
La contribuente impugnava l'avviso di accertamento sostenendo, per quanto riguarda il rilievo dell'indebita detrazione dell'Iva da operazioni inesistenti, che l'Amministrazione finanziaria non avrebbe provato che le società interposte fossero fittizie e che il legale rappresentante della società ricorrente fosse a conoscenza del meccanismo evasivo.
L'Agenzia ribatteva che dalle risultanze istruttorie emergeva chiaramente che i primi cessionari fossero "cartiere", evidenziando che "l'imposta addebitata sulle fatture di acquisto era parte dell'originario imponibile". In considerazione di ciò, la società, usando la normale diligenza, non poteva non sapere della frode, soprattutto alla luce del fatto che i suoi cedenti effettuavano operazioni fuori mercato, rivendendo gli autoveicoli a un prezzo inferiore rispetto a quello che essa avrebbe pagato rivolgendosi direttamente al fornitore comunitario.

La motivazione dei giudici
I giudici, con motivazione puntuale e ben articolata, hanno rilevato che:

  1. in base alla dinamica degli eventi, sarebbe stato normale che i primi cessionari avessero ceduto i beni a un prezzo superiore rispetto a quello d'acquisto operando un ricarico, e non che il prezzo della rivendita alla società ricorrente fosse inferiore al costo di acquisto
  2. vi erano tutta una serie di elementi da cui desumere che la società, ultima cessionaria, fosse a conoscenza del meccanismo frodatorio:
    • la frequenza dei rapporti commerciali tra l'interponente e gli interposti
    • il consistente volume d'affari tra i suddetti soggetti
    • la mancanza assoluta di tracce documentali degli ordini
    • il fatto che era inverosimile che la società ricorrente non conoscesse i legali rappresentanti delle società interposte né che ignorasse l'inesistenza delle loro sedi
    • le dichiarazioni di uno dei legali rappresentanti delle società interposte di non aver mai svolto attività di commercio di autoveicoli
    • le vendite delle auto avvenivano sottocosto.

Il collegio rilevava, inoltre, che se anche la ricorrente avesse provato di essere in buona fede e, quindi, di essere estranea all'accordo fraudolento, l'impianto normativo dell'imposta sul valore aggiunto (articoli 17 e 19 del Dpr 633/1972) consente la detrazione dell'Iva a credito a un soggetto non per il semplice fatto che in fattura sia evidenziata l'imposta, ma solo quando quell'imposta sia relativa ad operazioni effettivamente intervenute.

L'approfondimento delle questioni
La sentenza appare molto interessante per due tematiche in essa trattate: l'onere della prova in caso di operazioni inesistenti e la questione della rilevanza della buona fede del contribuente. Va subito detto che si presenta in piena sintonia con gli indirizzi della giurisprudenza di legittimità.

Per quanto attiene alla prima questione, il giudice ha elencato in motivazione gli elementi in base a cui era legittimo che l'Agenzia avesse ritenuto le operazioni soggettivamente inesistenti, elementi che erano emersi in sede di istruttoria e che erano stati presi a base dall'accertamento.
Appare utile, a questo proposito, cercare di definire in via generale quanto e con che mezzi debba essere provato dall'Amministrazione, e quanto e con che mezzi debba essere provato dal contribuente.
Una risposta a questi quesiti può essere data attraverso l'esame della giurisprudenza della Cassazione.

La Suprema corte ha affermato in più occasioni che in materia di indebita detrazione dell'Iva per operazioni inesistenti, la prova dell'esistenza delle stesse deve essere fornita dal contribuente.
Nonostante questo indirizzo dominante, esistono pronunce che potrebbero indurre l'interprete a ritenere esistente anche una tendenza minoritaria nella giurisprudenza di legittimità. Il riferimento è alle sentenze n. 17799 del 21/8/2007 e n. 18710 del 23/9/2005, le quali sembrerebbero addossare l'onere della prova dell'inesistenza delle operazioni esclusivamente in capo all'Agenzia.
Tali decisioni, in realtà, non mutano il quadro prospettato dalla giurisprudenza prevalente prima citata.

Infatti, esse non fanno altro che precisare la tematica, affermando che, in caso di contestazione di operazioni inesistenti, deve essere assolto per primo l'onere della prova da parte dell'Agenzia e, solo in caso positivo, tale onere si sposta in capo al contribuente, che deve provare il legittimo esercizio del diritto alla detrazione. La citata pronuncia n. 17799/2007 (in un caso in cui il giudice di secondo grado, pur osservando che le contestazioni dell'Agenzia sulla falsità delle fatture erano generiche (mera affermazione dell'indisponibilità dei prodotti fatturati presso il fornitore), aveva ritenuto che l'onere della prova gravasse in capo al contribuente) ha precisato che "l'onere di provare la veridicità delle fatture, per il contribuente, scatta soltanto quando gli organi di controllo fiscale adducono elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle fatture; nella specie, invece, stando alla motivazione della sentenza impugnata, non sono stati acquisiti elementi certi in base ai quali ipotizzare la falsità delle fatture e, quindi, non può essere invocata l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente".

E ancora, con la 18710/2005 i giudici hanno cassato una sentenza che aveva accolto l'appello dell'ufficio sulla base del fatto che il contribuente non aveva provato, tramite il deposito mai avvenuto di un perizia su un immobile, che i lavori sullo stesso fossero stati realmente eseguiti, affermando che l'agenzia delle Entrate avrebbe dovuto provare, e non meramente affermare, che l'immobile fosse inidoneo allo svolgimento di quei lavori.

Il fatto che in materia di operazioni inesistenti l'onere della prova gravi prima sull'Amministrazione e poi sul contribuente è, peraltro, confermato anche dalle numerose sentenze costituenti l'indirizzo dominante.
Con la n. 19109/2005 è stato affermato che costituiva onere del contribuente fornire la prova contraria in un caso in cui era "acquisito in maniera incontrovertibile il fatto storico dell'emissione delle fatture per operazioni inesistenti in senso assoluto, perché i relativi trasporti non erano stati mai effettuati".

Nella n. 28695/2005 l'orientamento è stato confermato in un caso in cui "gli assegni emessi a pagamento delle fatture contestate, dopo una serie di girate, erano di fatto ritornati nella disponibilità della Società e cioè dell'amministratore o di dipendenti, e questa incontestata circostanza appariva sufficiente a sostenere il profilo probatorio della pretesa fiscale".

Parimenti conforme è la sentenza n. 8959/2003, dalla quale si evince, in un caso in cui sussistevano gravi elementi indiziari (le società cedenti non svolgevano attività commerciale ed erano dedite a operazioni truffaldine) che "i fatti costitutivi della pretesa tributaria possono essere inseriti dall'amministrazione Finanziaria in base a presunzioni semplici, che possono, pure, nella fase contenziosa, costituire prova della relativa fondatezza, e che, a fronte di una tale prova presuntiva offerta dall'Ufficio, incombe sul contribuente l'onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della predetta pretesa".
In questo stesso senso, infine, va anche la sentenza n. 15228/2001.

Alla luce della disamina della giurisprudenza di legittimità è possibile affermare, pertanto, che in tutti i casi di indebita detrazione dell'Iva da operazioni inesistenti, in un primo momento è onere dell'agenzia delle Entrate provare che le operazioni sono inesistenti, utilizzando anche elementi indiziari che siano comunque idonei a fondare quanto meno una valida presunzione.
Solo una volta che è stata offerta questa prova, l'onere si sposta in capo al contribuente. A tal proposito va osservato che la Suprema corte è stata molto rigida in punto di prova necessaria per desumere l'esistenza delle operazioni. Ad esempio, nelle sentenze 7144/2007, 28695/2005 e 15228/2001, i giudici hanno escluso che il contribuente potesse raggiungere tale prova con la mera esibizione dei mezzi di pagamento ("Tale prova, però, non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati fittiziamente, per dare corpo apparente ad una transazione inesistente. Si tratta di un mero elemento indiziario, la cui presenza - o assenza - deve essere letta nel contesto di tutte le altre risultanze processuali").

Per quanto attiene, invece, alla rilevanza della buona fede del contribuente, e in particolare al fatto che la sua esistenza possa eliminare la responsabilità del cessionario in caso di detrazione di Iva per operazioni inesistenti, il giudice livornese, nel caso concreto, ha ritenuto che essa fosse da escludere ma che, se anche fosse esistita, il diritto alla detrazione andava escluso perché l'imposta detraibile è solo quella relativa alle operazioni effettivamente intervenute.
In particolare, il giudice ha indicato come precedente conforme a questa soluzione la già citata Cassazione 8959/2003. Tale sentenza esprime un principio di diritto inequivocabile: "l'elemento soggettivo della conoscenza della circostanza relativa all'illegalità o illiceità degli accordi esistenti tra le società variamente interessate alle vendite non viene in rilievo agli effetti del rapporto tributario. L'infrazione fiscale si configura, infatti, per il solo fatto oggettivo che il contribuente con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia determinato il rischio per l'Amministrazione di non conseguire il pagamento dell'imposta effettivamente dovuta. Nel caso, quindi, ove pure la contribuente avesse dimostrato di essere in buona fede e di non essere partecipe degli accordi fraudolenti, la circostanza sarebbe stata egualmente irrilevante agli effetti dell'iter decisionale della controversia fiscale".

Tale indirizzo, a onor del vero, appare troppo rigoroso alla luce dell'orientamento che è emerso negli ultimi anni in sede di giurisprudenza comunitaria sulle "frodi carosello". In base al principio della neutralità fiscale dell'Iva, infatti, la Corte di giustizia Ue ha ritenuto che i soggetti che sono in buona fede non possano subire limitazioni alla detrazione.
Infatti, nella sentenza del 12/1/2006, relativa alle cause riunite C-354/03, C-355/03 e c-484/03, il giudice comunitario, in presenza di una catena di operazioni in cui erano intervenuti, all'insaputa dei ricorrenti nel procedimento principale, sia soggetti che non avevano versato l'Iva sia soggetti che avevano utilizzato un numero Iva abusivo, ha rilevato che "il diritto di un soggetto passivo che effettua simili operazioni di dedurre l'Iva pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un'altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest'ultimo, sia inficiata da frode all'Iva".

Il diritto alla detrazione può essere, pertanto, negato solo in quei casi in cui il contribuente sapeva o avrebbe potuto sapere, usando la normale diligenza, che l'acquisto effettuato era relativo ad una frode Iva.

A tal proposito la Corte di giustizia Ue, con sentenza del 6/7/2006, relativa alle cause riunite C-439/04 e C-440/04, in un caso in cui un soggetto fraudolentemente detraeva l'imposta su acquisti relativi a cessioni mai avvenute di una sola e medesima merce, ha osservato che "spetta al giudice nazionale negare il beneficio del diritto alla deduzione qualora risulti acclarato, alla luce di elementi obiettivi, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un'operazione che si iscriveva in una frode all'Iva, anche se l'operazione in oggetto soddisfaceva i criteri oggettivi sui quali si fondano le nozioni di cessione di beni effettuate da un soggetto passivo che agisce in quanto tale e di attività economica".

Questa precisazione alla luce della più recente giurisprudenza comunitaria, tuttavia, non inficia la motivazione dei giudici livornesi, in quanto essi hanno verificato, in concreto, per l'appunto, tramite il riscontro degli elementi obiettivi emergenti dall'istruttoria, che il contribuente non poteva non essere a conoscenza della frode.

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