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Giurisprudenza

Giudizio tributario secondo equità se pur ragionevole è illegittimo

Nulla perché non motivata la sentenza della Ctr che quantifica la pretesa fiscale oltre i limiti delle domande di parte

La natura del processo tributario comporta che, se il giudice ritenga invalido l'avviso di accertamento per motivi non formali ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l'atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, deve eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte, evitando, però, di fare ricorso a criteri equitativi.
A tali conclusioni è pervenuta la Corte di cassazione con la sentenza n. 19079 del 1° settembre.

La controversia
Un contribuente impugnava innanzi alla Ctp un avviso di accertamento, ai fini Irpef, Iva e Irap.
I giudici di primo grado respingevano il ricorso. Il successivo appello proposto dal contribuente era accolto parzialmente dalla Ctr, che provvedeva a ridurre forfetariamente i corrispettivi accertati nella misura del 20 per cento.
Il contribuente proponeva ricorso per cassazione, lamentando, sostanzialmente, la contraddittorietà della motivazione della sentenza, perché la Ctr, pur avendo ritenuto fondata la sua tesi difensiva, riguardo l'incongruità dell'accertamento, si era limitata a una riduzione equitativa dei corrispettivi.

La sentenza
La Suprema corte ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la decisione impugnata, rilevandone la carenza motivazionale, per aver il giudice di secondo grado ridotto equitativamente il debito d'imposta.

La sentenza rafforza l'orientamento giurisprudenziale riguardante la natura del processo tributario e i precisi poteri-doveri del giudice, in presenza di un'impugnativa avverso un atto impositivo, che precludono l'ammissibilità di una pronuncia giurisdizionale fondata su criteri equitativi.
In base alla disciplina positiva del processo tributario si ritiene, infatti, che il giudice, chiamato a pronunciarsi sui ricorsi proposti avverso gli atti impostivi, non debba limitarsi a dichiarare legittimi o ad annullare questi ultimi, ma deve emettere pronunce di merito, attributive del torto o della ragione, in funzione della corretta verifica operata circa il modo di essere del rapporto obbligatorio in contestazione.

Tale conseguenza deriva dalla circostanza che il processo tributario, come più volte evidenziato dai giudici di legittimità (cfr Cassazione, sentenze 22453/2008, 7404/2001, 4280/2001 e 16171/2000), nonostante sia strutturato come giudizio di impugnazione, non è annoverabile tra quelli di "impugnazione-annullamento", ma tra i processi di "impugnazione-merito".
Attraverso lo strumento processuale dell'impugnazione dell'atto si conferisce, infatti, all'organo giudicante non solo la cognizione orientata all'eliminazione dell'atto (ipotesi di "impugnazione-annullamento") ma anche la cognizione del rapporto tributario ("impugnazione-merito"), per cui il giudice adito ha il potere-dovere di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte, pena la carente motivazione della sentenza.

In particolare, il giudice che reputi invalido un avviso di accertamento per motivi non formali ma di carattere sostanziale, ritenendo fondate le censure del contribuente relative, ad esempio, al maggior imponibile o ai costi, non può limitarsi né a una pronuncia costitutiva di annullamento dell'atto impositivo, né a una riduzione equitativa del quantum debeatur, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, deve eventualmente ricondurla, sulla base delle disposizioni fiscali, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (cfr Cassazione, sentenze 21184/2008, 11217/2007).
Non è invece ammesso il ricorso a criteri di valutazione equitativa, particolarmente laddove neppure siano illustrate le ragioni poste a fondamento del ragionamento dell'organo giudicante.

Al di là delle motivazioni espresse nella sentenza in esame, ulteriori ragioni precludono all'organo giudicante di ricorrere a una pronuncia di natura equitativa.
Infatti, non solo non esiste una norma che attribuisca un tale potere al giudice tributario (per cui il riconoscimento di un siffatta facoltà comporterebbe un indebito ampliamento dei poteri delle commissioni tributarie), ma soprattutto "la natura giurisdizionale delle commissioni tributarie non lascia dubbio alcuno sulla piena applicabilità anche al giudizio tributario di quelle disposizioni costituzionali (quali ad esempio l'art. 101 della Costituzione, che stabilisce che il giudice è soggetto soltanto alla legge) che relegano il giudizio di equità entro spazi limitati e tassativamente stabiliti dal legislatore" ("Decisioni salomoniche ma censurabili", pubblicato su Fiscooggi il 3 agosto 2006).

L'impossibilità per il giudice tributario di ricorrere a una pronuncia equitativa e, soprattutto, l'inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una disposizione attributiva di tale potere, trovano la propria ragione giustificativa nel principio costituzionale della riserva di legge relativa, stabilito nell'articolo 23 della Costituzione, in virtù del quale "nessuna prestazione personale e patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge".

In base alla richiamata disposizione costituzionale la legge può non disciplinare integralmente il rapporto tributario, demandando la regolamentazione specifica a una fonte subordinata, ma deve comunque contenere gli elementi necessari per individuare il tributo e cioè il presupposto di fatto, i soggetti passivi e le aliquote.

È evidente, pertanto, che riconoscere al giudice tributario il potere di ridurre equitativamente il debito d'imposta, prescindendo dalle norme fissate all'uopo dal legislatore, si tradurrebbe in un palese aggiramento del precetto costituzionale.
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