Articolo pubblicato su FiscoOggi (https://fiscooggi.it/)

Giurisprudenza

Una grave irregolarità delle scritture
chiama l’accertamento induttivo puro

Secondo la Cassazione nel caso in esame non c’era una parziale incongruenza della documentazione, compatibile con il mero completamento delle lacune riscontrate dall’Ufficio

accertamento

È legittimo l’accertamento induttivo “puro” in presenza di rilevanti e ripetute irregolarità delle scritture contabili, discendenti dall’erronea qualificazione delle operazioni effettuate dalla società e determinanti una situazione di generale inattendibilità contabile. Lo ha precisato la Cassazione nella sentenza n. 908 del 13 gennaio 2023.

I fatti
Con accertamento induttivo “puro” per il 2009, l’Agenzia delle entrate accertava nei confronti di una s.n.c. un maggior reddito e un maggior valore della produzione ai fini Irap, tenendo conto della redditività minima delle società che nel territorio svolgevano attività analoga e applicando tale parametro di redditività ai ricavi conseguiti dalla società contribuente nell’anno d’imposta. La tipologia di accertamento utilizzata trovava giustificazione (ex articolo 39, comma 2, lettera d), Dpr n. 600/1973) in presenza di irregolarità formali delle scritture contabili di consistenza così grave, in quanto numerose e ripetute, da comprometterne la complessiva attendibilità, e che discendevano dall’erronea qualificazione delle operazioni effettuate, indicate dalla società come prestazioni di servizi e, in particolare, come “ricondizionamento su base di scambio”.

In particolare, la contribuente, attiva nel settore dei servizi di manutenzioni e riparazioni meccaniche per operatori professionali (autotrasportatori), aveva erroneamente iscritto in bilancio, tra le immobilizzazioni (ricompresi tra i beni strumentali), beni – merce, nella specie “gruppi meccanici" ricondizionati,  destinati alla vendita e, quindi, da contabilizzare secondo il metodo "costi/ricavi - rimanenze". Nella dinamica dei rapporti commerciali intrattenuti tra società e clienti e sulla base dei contratti relativi, la prima incamerava il pezzo non funzionante, destinato ad essere ricondizionato, e lo sostituiva con un nuovo pezzo già “ricondizionato”, analogo a quello reso dal cliente, indicandone in fattura il prezzo al netto del valore attribuito al bene difettato. Il pezzo reso dal cliente, dopo essere stato ricondizionato, veniva a sua volta inserito dalla società nel proprio circuito dei beni destinati allo scambio e alla consegna ad altri clienti ed era indicato, in bilancio, tra i beni strumentali. Se poi, il gruppo ceduto fosse stato irreparabile, la società avrebbe emesso fattura per la differenza del maggior prezzo a carico del cliente.

Con riferimento alle modalità di contabilizzazione adottate dalla società, i gruppi meccanici erano considerati contabilmente dalla società come immobilizzazioni materiali, sottoposte ad ammortamento (invece ritenuti dall’Ufficio beni-merce), con la conseguenza che, da un lato, i costi d’esercizio connessi all’acquisto di gruppi di rotazione erano trattati come costi pluriennali, e che, dall’altro, i ricavi derivanti dalla vendita dei gruppi non erano affatto rilevati, poiché, contabilmente, in un primo momento il magazzino non veniva movimentato (nonostante in concreto un pezzo ne fuoriuscisse e un altro ne subentrasse al suo posto) e, alla definitiva uscita di un pezzo (perché non sostituito), conseguiva una dismissione foriera di una minusvalenza o di una plusvalenza.

La complessa vicenda è stata sottoposta all’esame dei giudici tributari che, accogliendo il ricorso di società e soci, hanno annullato l’avviso di accertamento e, poi, in appello hanno confermato la sentenza impugnata. In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto non legittimo l’accertamento induttivo puro poiché, da un lato, le irregolarità contestate avrebbero dovuto far riferimento all’attività “esclusiva e preponderante” e non a una quota minoritaria dell'attività aziendale, che incideva per circa il trenta per cento del volume d’affari; dall’altro, non poteva giustificarsi un accertamento “induttivo puro” costruito sulla base di indici di redditività desunti da un campione ristretto di imprese di riferimento e non controllabile dalla stessa contribuente in termini di omogeneità del campione e di analogia con la propria attività.
L’Agenzia ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando, tra l’altro violazione dell’articolo 39, Dpr n. 600/1973, avendo i giudici d’appello basato la decisione sul fatto:
1) che le contestazioni di irregolare tenuta della contabilità avrebbero riguardato solo una parte dell’attività
2) che non sussistevano omissioni, falsità ed inesattezze gravi, poiché non si erano riscontrati gravi scostamenti rispetto alle risultanze di magazzino
3) che le operazioni contestate risultavano analiticamente fatturate e dettagliatamente relazionate, il che avrebbe consentito all’Amministrazione di effettuare il controllo analitico senza dover ricorrere all’accertamento induttivo puro.

La Corte ha accolto il ricorso e ha affermato che la «modalità d’inquadramento contabile dei beni ha finito invariabilmente per compromettere l’attendibilità della contabilità nel suo complesso, sovrapponendo inammissibilmente il concetto di strumentalità del bene a quello di bene-merce.» (Cassazione, sentenza n. 908/2023).

Osservazioni
La questione oggetto della controversia, e cioè la qualificazione dell’operazione di “scambio con ricondizionamento” (in concreto una cessione al cliente di un gruppo ricondizionato e all’impresa di quello non funzionante posseduto dal cliente), posta in essere dai contribuenti e da loro ritenuta come appalto di servizi, involge valutazioni sia di natura fiscale, sia di natura civilistica e contabile in relazione alla distinzione tra beni-merce e immobilizzazioni, e tra cessione di beni e prestazione di servizi.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che «la qualificazione dei rapporti, caratterizzati da obbligazioni di fare e di dare, deve essere effettuata sulla base del criterio della prevalenza … del lavoro sulla materia, con riguardo alla volontà dei contraenti oltre che al senso oggettivo del negozio, al fine di accertare se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro lo scopo del contratto (appalto), oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia e il conseguimento della cosa l'effettiva finalità del contratto (vendita)»(Cassazione, n. 5935/2018).

Poiché dall’esame delle condizioni contrattuali adottate dalla società, tale prevalenza non è emersa, soprattutto perché oggetto del contratto è risultato il “gruppo ricondizionato a nuovo”, la Cassazione ha ritenuto di attribuire rilevanza piuttosto all’inquadramento contabile operato dalla stessa società e alla sua rispondenza al criterio legale (civilistico e fiscale). Dall’esame degli atti, è emerso che tale inquadramento non risultava conforme alla disciplina civilistica e fiscale, e determinava un grave contrasto della contabilità con i criteri di sua tenuta sia per la qualificazione dei gruppi ricondizionati in termini di immobilizzazioni, sia per la erronea sovrapposizione dei concetti di beni - merce e beni strumentali.

Al riguardo, prima, la Corte ha rilevato che «i gruppi meccanici, che in realtà non costituiscono un’entità fissa ma mutano in tipologia e composizione, essendo oggetto di conferimento da parte dei clienti e prelievo da parte degli stessi in ragione delle operazioni negoziali, venivano invece considerati come un valore costante nel tempo, appunto un’immobilizzazione, che per definizione costituisce un elemento patrimoniale caratterizzato dalla durevolezza (art. 2424, c.c.) e dalla strumentalità all’attività di produzione» (Cassazione, n. 908/2023).

Ai fini della determinazione del reddito di impresa, poi, i giudici di piazza Cavour hanno richiamato la distinzione fra beni “merce”, ossia destinati al mercato della compravendita e al cui scambio o produzione è diretta l'attività di impresa e beni “strumentali”, destinati alla produzione, precisando che l'allocazione in bilancio dei beni societari debba avvenire sulla base della destinazione economica ad essi concretamente impresa.

Nella fattispecie in esame, nonostante l’inquadramento contabile delle operazioni effettuate, avvenuto in violazione delle disposizioni civilistiche (articolo 2424, cc) e fiscali (articoli 39, Dpr n. 600/1973 e 43, Tuir), non abbia riguardato l’intera attività ma circa un terzo della stessa, la Cassazione ha posto evidenza che, a fronte di una pratica ampia e ripetuta nel tempo (tanto da non aver consentito di ricostruire elementi per la determinazione dell’Iva), la tecnica contabile adottata abbia compromesso (non parzialmente, ma) nel suo complesso l’attendibilità delle scritture contabili. La diversa classificazione delle operazioni in termini di cessione di beni merce ovvero di fornitura di pezzi di ricambio, infatti, ha inciso sulla situazione delineata dalla società, «tanto sull’entità e sull’oggetto delle immobilizzazioni come, di riflesso, sui costi d’esercizio e sui correlativi ricavi. Tutto ciò a fronte dell’uscita di beni ricondizionati e dell’ingresso di beni da riparare o sostituire parzialmente, dunque per valori ben differenti, a voci contabili immutate, in una situazione di generale inattendibilità che ha compromesso l’intero quadro contabile

In conclusione, quindi, la Cassazione, riconoscendo la legittimità del metodo di accertamento adottato, ha affermato che, nella fattispecie, non si configurava una parziale inattendibilità, compatibile con la possibilità per l'Ufficio accertatore di procedere al mero completamento delle lacune riscontrate con metodo analitico - induttivo (Cassazione, n. 33604/2019) ma, piuttosto, una situazione di generale inattendibilità che comprometteva l’intero quadro contabile.

URL: https://www.fiscooggi.it/rubrica/giurisprudenza/articolo/grave-irregolarita-delle-scritture-chiama-laccertamento-induttivo