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Giurisprudenza

Impugnabilità diniego autotutela,
un limite segnato dalla legittimità

Il contribuente che chiede di ritirare un avviso intangibile perché definitivo, non può dedurre i vizi dell’atto stesso ma solo prospettare un interesse generale alla sua rimozione

La Corte di cassazione, con l’ordinanza 18999 del 17 luglio 2018, ha nuovamente chiarito quali sono i presupposti e i limiti di impugnabilità del diniego di autotutela nel processo tributario.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle entrate riprendeva a tassazione l’ammortamento dell’avviamento iscritto in bilancio a seguito del disavanzo risultante da fusione per incorporazione.
La società contribuente impugnava gli avvisi dinanzi alla Ctp di Catania, che accoglieva i ricorsi con sentenze poi confermate in appello, a eccezione di quello relativo a uno degli anni di imposta, la cui legittimità veniva confermata prima dai giudici regionali e poi dalla Corte di cassazione.
 
Successivamente, al passaggio in giudicato delle relative sentenze, la società presentava istanza di annullamento in autotutela anche dell’avviso rispetto al quale era risultata soccombente, deducendo in proposito l’illegittimità della pretesa tributaria.
L’ufficio respingeva l’istanza e la contribuente si rivolgeva alla Commissione tributaria provinciale di Catania, che dichiarava inammissibile il ricorso.
La Ctr rigettava poi l’appello, sul presupposto che l’atto amministrativo era divenuto intangibile in presenza di un giudicato favorevole all’amministrazione.
 
Avverso tale sentenza la società proponeva, infine, ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’articolo 2-quater del Dl 30 settembre 1994 e del Dm 19697/1937, nonché dell’articolo 10 dello Statuto del contribuente, e censurando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto la legittimità del diniego di autotutela.
La ricorrente denunciava, inoltre, omessa o insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio, avendo i giudici regionali trascurato di valutare la novità dei fatti rappresentati, costituiti dall’acquisizione onerosa dell’avviamento e dalla intangibilità della relativa appostazione in bilancio.
 
Il ricorso, secondo la suprema Corte, era infondato.
I giudici di legittimità evidenziano, infatti, che la ratio decidendi della sentenza impugnata consisteva nel ritenere inammissibile un’istanza di autotutela relativa a un rapporto tributario ormai definitivo, laddove la legittimità del diniego discendeva da un precedente giudicato favorevole all’ufficio.
In ogni caso, sottolinea la Corte, le Sezioni unite hanno più volte affermato il principio secondo il quale, avverso l’atto con il quale l’amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare in via di autotutela un atto impositivo divenuto definitivo, non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria, in questo caso, dell’attività di autotutela sia per l’inammissibilità di un nuovo sindacato giurisdizionale sull’atto di accertamento munito del carattere di definitività, atteso che, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso a una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (cfr Cassazione, Sezioni unite nn. 2870, 3698 e 16097 del 2009).
 
L’istanza di autotutela del contribuente, del resto, afferma ancora la Cassazione, non determina per l’amministrazione alcun obbligo giuridico di provvedere e, tanto meno, di agire nel senso prospettato dal contribuente stesso.
E contro il rifiuto espresso di autotutela potrà comunque esercitarsi solo un sindacato sulla legittimità del rifiuto stesso e non anche sulla fondatezza della pretesa tributaria, che, altrimenti, comporterebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa propria dell’amministrazione finanziaria (aggravata, nel caso in esame, anche da un’illegittima messa in discussione del giudicato che aveva sancito la legittimità dell’atto impositivo).
Il contribuente che richiede all’amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo non può dunque limitarsi a dedurre eventuali vizi dell’atto medesimo, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’amministrazione alla rimozione dell’atto, laddove, “il sindacato giurisdizionale sull'impugnato diniego, espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell'Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l'esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria” (cfr Cassazione nn. 7616/2018, 1965/2018 e 20314/2017).
 
Nella fattispecie, la ricorrente non aveva invece addotto alcun interesse pubblico all’annullamento, il quale non poteva consistere nel fatto che il ricorso originario fosse fondato sulla prospettazione di profili di illegittimità non vagliati dalla Corte.
 
La pronuncia in commento è solo l’ultima di una lunga serie, che ormai ha chiarito i margini di impugnazione dell’eventuale diniego di autotutela.
Ciò che comunque è ormai acclarato è che il ricorso avverso il diniego di autotutela opposto dal Fisco è ammissibile, ma il sindacato può esercitarsi, nelle forme ammesse sugli atti discrezionali, soltanto sulla legittimità del rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria.
Né, nel caso in esame, il ricorrente avrebbe potuto opporre che l’autotutela non era stata richiesta per far valere un vizio originario dell’atto impositivo, ma sulla base di un evento sopravvenuto, costituito dal passaggio in giudicato di una decisione che aveva dato della fattispecie una ricostruzione incompatibile con quella assunta nell’atto impositivo. Il vizio del provvedimento è infatti pur sempre quello originario, riguardante la diversa qualificazione della fattispecie.
Né potevano essere pertinenti i richiami alla possibile efficacia del giudicato tributario oltre i limiti del caso deciso, anche considerato che una cosa è sostenere che il giudicato formatosi con riferimento a un certo atto impositivo possa avere efficacia preclusiva nel giudizio in corso riguardante un atto diverso, qualora vi sia comunanza e immutabilità dei presupposti di fatto, e altra cosa è sostenere che il giudicato vincoli l’amministrazione a revocare i propri atti definitivi, fondati su presupposti di fatti accertati in modo diverso in sede giudiziale.
 
In conclusione, come già riconosciuto anche dalla Corte di legittimità (cfr Cassazione 22253/2015), non può escludersi che, trattandosi di attività procedimentalizzata, anche il provvedimento di diniego di autotutela possa essere affetto dai vizi di legittimità propri degli atti amministrativi, non essendovi ragioni per precludere al privato la possibilità di esperire i mezzi di tutela per far valere tali vizi di legittimità, ma il vizio di violazione di legge e quello di eccesso di potere non possono evidentemente sovrapporsi ai vizi di validità o di merito fatti valere con i motivi del ricorso introduttivo proposto avverso l’atto impositivo (ove tempestivamente impugnato), venendosi altrimenti a determinare un’inammissibile duplicazione di tutele, in palese contrasto con i principi di efficienza dell’amministrazione della giustizia, di speditezza e ragionevole durata dei processi e di economia dei giudizi.
 
Il senso, dunque, su cui la Corte ha ormai orientato il suo indirizzo è che contro il diniego dell’amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria, dato che, diversamente, attraverso l’impugnazione del diniego di esercizio di autotutela si consentirebbe l’aggiramento del termine di decadenza previsto, a garanzia del principio di certezza del diritto e di tendenziale stabilità dei rapporti giuridici, per la impugnazione degli atti impositivi, che rimarrebbero quindi esposti a riesame a tempo indeterminato tutte le volte che il contribuente, pur divenuto definitivo l’avviso di accertamento o rettifica, presenti istanza di revisione in autotutela.
 
Poter provvedere ad annullare direttamente, cioè senza preventivo intervento giurisdizionale, i propri atti, costituisce, del resto, una potestà tipica della Pubblica amministrazione.
Tale capacità di riesaminare il proprio operato risponde infatti all’esigenza di assicurare il perseguimento dell’interesse pubblico, a cui tutti i poteri amministrativi sono subordinati ed è attuata attraverso il riesame e l’eventuale correzione o rimozione degli atti viziati, sia sotto il profilo della legittimità che del merito.
L’annullamento degli atti in autotutela deve però essere sempre giustificato da concrete ragioni di interesse pubblico alla rimozione del provvedimento. E sempre che, nel frattempo, non sia intervenuto giudicato sostanziale.
L’esercizio del potere di annullamento in via di autotutela trova infatti un limite insuperabile nell’esistenza di una sentenza passata in giudicato.
Il solo altro limite, potremmo dire di fatto e non di diritto, è poi quello della “convalescenza” dell’atto per decorso del tempo.
La possibilità di annullare d’ufficio gli atti illegittimi non può infatti spingersi fino all’eliminazione di situazioni ormai esaurite.
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