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Giurisprudenza

Indebita detrazione Iva.
La prova al contribuente

In caso di fatture inesistenti, deve dimostrare l'estraneità ai fatti e la buona fede sul convincimento che gli emittenti erano legittimati alla riscossione dell'imposta

FATTURA

In tema di Iva, in caso di operazioni inesistenti, il diritto alla detrazione dell'imposta versata dal committente/cessionario in via di rivalsa al soggetto prestatore/cedente che ha emesso la fattura, non sorge inevitabilmente, per il solo fatto dell'avvenuta corresponsione dell'imposta formalmente indicata nel documento. Il soggetto che invoca la detrazione deve fornire, in ordine all'estraneità dell'illecita fatturazione, riscontri precisi.

Ne consegue che, ai fini della detrazione, non è sufficiente fornire la prova dell'avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa, nonché dell'Iva riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non determinanti, in rapporto alla peculiarità del meccanismo dell'Iva e dei relativi, possibili, abusi.

Questo è il principio giuridico ribadito, ancora una volta, dalla Cassazione nella pronuncia 19330 del 22 settembre, che, nell'accogliere il ricorso proposto dall'Amministrazione finanziaria, ha completamente riscritto le sentenze di merito, ritenute del tutto erronee.

I giudizi di merito
Un ufficio finanziario rettifica le dichiarazioni Iva - anni 1995 e 1996 - di un contribuente, ritenendo le stesse infedeli, in quanto erano state portate in detrazione fatture relative a operazioni inesistenti.
Contro tale atto impositivo, il contribuente propone ricorso alla Commissione tributaria provinciale che lo accoglie - sulla base delle conclusioni del Gup, che aveva assolto il contribuente dall'imputazione penale "perché il fatto non sussiste" - in quanto, nonostante era stato appurato con certezza che le fatture utilizzate dall'imputato erano soggettivamente fittizie, non era stato provato, invece, che le prestazioni fatturate non fossero reali e regolarmente pagate.

Successivamente, i giudici di secondo grado respingono l'appello proposto dall'ufficio finanziario. In particolare, pur riconoscendo che il giudicato penale non fa stato tra le parti, ritengono che lo stesso contiene un accertamento di fatto che non può essere trascurato, ossia che l'ufficio - in sede penale - ha semplicemente svolto considerazioni indirizzate a confermare la falsità delle fatture, senza fornire ulteriori elementi probatori.

Pertanto, i giudici tributari di appello, nel confermare la sentenza di primo grado, evidenziano che non è stato contestato, in giudizio, che il contribuente abbia effettivamente eseguito i pagamenti relativi alle operazioni descritte nelle fatture, con la conseguenza che non può imputarsi a quest'ultimo il comportamento illecito del prestatore/cedente, senza la prova di una sua connivenza.

L'Amministrazione finanziaria propone ricorso per Cassazione sostenendo, per un verso, che non può essere portata in detrazione l'Iva pagata sulle fatture emesse a fronte di operazioni anche solo soggettivamente inesistenti, e, dall'altro, che a fronte della dimostrazione che le fatture contestate provenivano da soggetti commerciali inesistenti o falliti, spettava al contribuente dimostrare la sua buona fede, ossia di ignorare, senza colpa, che l'emittente avesse fornito una fattura falsamente intestata.

L'assunto della Cassazione
Per i giudici di legittimità il ricorso è fondato.
Innanzitutto, la Cassazione ricorda che i principi che regolano la responsabilità penale sono diversi da quelli applicabili nel processo tributario, nel quale valgono presunzioni legali ed esistono limiti alla facoltà di prova, pertanto, il giudice tributario non può basarsi "…sui fatti accertati dal giudice penale ma deve rivalutarne autonomamente la prova e la rilevanza (Cassazione, sentenze 3724/2010, 5720/2007)".
Al riguardo, la circostanza per cui il contribuente non ha partecipato alla frode commessa dagli emittenti - come ritenuto dal giudice penale - non è sufficiente a provare il suo diritto di portare in detrazione l'Iva versata a fronte delle fatture, "…perché è pacifico che l'imposta non è pervenuta all'erario".

Secondo la Cassazione, infatti, "il pagamento dell'IVA effettuato a chi figura cedente delle prestazioni imponibili è opponibile al fisco in quanto avvenga senza alcun profilo di colpa, in base ai principi dell'art. 1189 cod. civ. (cass., 5720/2007, 5912/2010)".

Spetta al contribuente, quindi, "…non solo la prova del pagamento dell'imposta, ma di dimostrare le circostanze univoche che avevano fondato il suo convincimento circa il fatto che gli emittenti delle fatture fossero legittimati alla riscossione dell'IVA. Di fronte al dato processuale - pacifico - che le fatture contestate erano soggettivamente false, quel convincimento e soprattutto quelle univoche circostanze non potevano presumersi (cass. nn. 2847/2008, 13211/2009)".

Riflessioni
La questione della detraibilità dell'Iva relativa a fatture per operazioni inesistenti ha costituito, negli ultimi anni, oggetto di numerosi ricorsi dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria.
Com'è noto, l'inesistenza delle fatture può essere di tipo "oggettiva" (mancanza di effettuazione della cessione o della prestazione; indicazione in misura superiore al reale dei corrispettivi dell'imposta) oppure "soggettiva" (indicazione di soggetti non corrispondenti a quelli reali).

Come dimostra la sentenza in commento, l'attuale orientamento della Corte di legittimità è quello di negare la detrazione dell'Iva relativa a fatture emesse per operazioni inesistenti.

Dal punto di vista strettamente contabile, tale problematica non è marginale in quanto, oltre agli aspetti penali dell'attività fraudolenta posta in essere, l'Iva "indetraibile" si trasforma automaticamente in un elemento di costo per il cessionario/committente.

Secondo il consolidato insegnamento della Corte suprema (cfr sentenza 19823/2009), in presenza di operazioni inesistenti non si realizza l'ordinario presupposto "…del diritto alla detrazione di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1; la previsione del successivo art. 21, comma 7, d'altro canto, se per un verso incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d'imposta, pur in assenza del suo ordinario presupposto, sulla base del solo principio di cartolarità, per altro verso incide, indirettamente, anche sul destinatario della fattura, confermandone, in combinato disposto con l'art. 19, comma 1, e art. 26, comma 3, la preclusione ad esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell'imposta, in assenza del relativo presupposto - acquisto o importazione di beni e servizi nell'esercizio dell'impresa, arte o professione (Cass. n. 22882 del 2006)".

Quindi, qualora l'Amministrazione contesti al contribuente - come nel caso di specie - l'indebita detrazione dell'Iva documentata da fatture, perché relative a operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull'inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente, che voglia far valere il diritto alla detrazione, fornirne la prova della fonte legittima e della correttezza, in mancanza della quale la detrazione deve ritenersi indebita, con la conseguenza che l'ufficio può recuperare a tassazione l'imposta irritualmente detratta (cfr Cassazione, sentenze 19823/2009, 2847/2008, 15395/2008 e 11109/2003).


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