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Giurisprudenza

Iva erroneamente addebitata:
la detrazione non è ammessa

Il diritto non sorge se l’imposta non era proprio dovuta ma può essere esercitato solo nel caso in cui sia stata applicata un’aliquota superiore a quella prevista per il bene ceduto

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In tema di Iva, l’imposta versata in relazione a un’operazione non imponibile, non può essere portata in detrazione dal cessionario, nemmeno a seguito della recente modifica dell’articolo 6, comma 6, del Dlgs n. 471/1997, perché tale disposizione si applica unicamente all’ipotesi dell’Iva corrisposta sulla base di un’aliquota maggiore. Così ha stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 24289 del 3 novembre, che ha per la prima volta precisato la nozione di “applicazione dell'imposta in misura superiore a quella effettiva”.

Iva non dovuta: l’orientamento tradizionale
Il tema dell’imposta addebitata per errore, sul quale ha inciso un’importante novella del 2017 alla quale nel 2019 è stata attribuita portata retroattiva, ha da sempre costituito oggetto di interesse e fonte di contenzioso.
Secondo la giurisprudenza europea (vedi Corte di giustizia Ce, sentenza 13 dicembre 1989 in causa C-342/87, Genius Holding BV; più di recente, Corte di giustizia Ue, sentenza 26 aprile 2017, C-564/15, per una fattispecie di mancata applicazione del reverse charge; nella giurisprudenza italiana vedi Cassazione n. 17984/2016), l’esercizio del diritto di detrazione non si estende all’imposta per il solo fatto di essere indicata in fattura, ma presuppone che l’imposta sia anche dovuta, cioè relativa ad un’operazione effettivamente soggetta all’Iva.
Cosa accade quando il cedente o il prestatore addebitino erroneamente l’Iva?
Secondo la Corte di giustizia, l’Iva non dovuta che, tecnicamente, non dovrebbe nemmeno considerarsi un’imposta, non può essere detratta dal cessionario o committente: per evitare di rimanerne inciso, questi deve rivolgersi (dinanzi al giudice ordinario: vedi Cassazione 6451/2016) al cedente al quale l’ha corrisposta. Il cedente, a sua volta, può chiederne la restituzione all’amministrazione finanziaria, che comunque è tenuta a negare la detrazione operata dal cessionario. Dall’Iva indebita, quindi, deriva un triplice rapporto.

Secondo una giurisprudenza domestica minoritaria, menzionata anche nella motivazione della sentenza in commento e ispirata a ragioni di carattere “pratico”, l’Iva può essere detratta dal cessionario, giungendo al medesimo risultato complessivo di neutralità.

Nel 2017, il legislatore è intervenuto due volte sul tema dell’Iva addebitata per errore:

  • con l’articolo 8 della legge 167/17 è stato introdotto l’articolo 30-ter del Dpr n. 633/72, con il quale si prevede un termine di decadenza biennale per la restituzione dell’imposta non dovuta e, a seguito di accertamento, la possibilità per il cedente o prestatore di richiedere il rimborso all’Erario, entro due anni dalla restituzione al cessionario/committente, dell’importo pagato a titolo di rivalsa
  • con la legge di bilancio 2018 (articolo 1, comma 935, legge 205/2017), alla previsione secondo cui in all’illegittima detrazione Iva consegue una sanzione (attualmente) pari al 90% dell’imposta detratta, è stata aggiunta l’ulteriore previsione secondo cui, “in caso di applicazione dell'imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione”, il cessionario/committente è punito con una sanzione non più proporzionale all’imposta, ma “formale”, compresa fra 250 e 10mila euro.

Le modifiche del 2017-2019 e i relativi effetti nel tempo
La Cassazione n. 24001/2018 (vedi “Indetraibile l’Iva pagata in più per applicazione di aliquota errata”) aveva ritenuto che la seconda disposizione non avesse portata retroattiva quanto all’imposta (cioè all’inciso “fermo restando il diritto […]alla detrazione”), ma solo con riguardo ai profili sanzionatori (dalla sanzione minima del 100%, e poi 90%, si è passati a quella pari a 250 euro) per il noto principio del favor rei.

Con una tecnica normativa simile a quella adottata in relazione alla riforma dell’articolo 20 del Tur, dichiarata “di interpretazione autentica” dalla legge di Bilancio 2019 per superare la diversa tesi della Cassazione, il. decreto crescita (Dl n. 34/2019) ha aggiunto al comma 935 della legge di Bilancio 2019 un periodo secondo cui “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai casi verificatisi prima dell'entrata in vigore della presente legge”, così imponendone la portata retroattiva anche con riferimento alla detrazione.

La decisione della Cassazione
Con la decisione in commento, sentenza n. 24289 del 3 novembre 2020, la Cassazione, pur prendendo atto della retroattività anche nella parte in cui fa salvo il diritto alla detrazione, ha fornito un’importante precisazione in merito al corretto significato da attribuirsi all’espressione “imposta superiore in misura a quella effettiva”.
Si trattava, nel caso di specie, di impugnazione proposta dall’Agenzia contro la sentenza di appello, depositata nel 2011, che, adeguandosi all’orientamento sopra descritto come “minoritario”, aveva annullato il recupero della detrazione effettuata in relazione a operazioni dalle parti contrattuali erroneamente ritenute imponibili.
La Cassazione ha accolto il ricorso, con decisione nel merito e conseguente rigetto del ricorso introduttivo, chiarendo che, alla luce del tenore letterale della disposizione dell’articolo 6, comma 6 citato, la detrazione è fatta salva unicamente qualora “sia stata erroneamente corrisposta sulla base di un'aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta”.

Ciò significa che la nuova norma viene in rilevo quando l’oggetto del contendere sia (ad esempio) costituito dalla corretta aliquota da applicare alle prestazioni di edilizia, ma non anche quando la cessione o prestazione non avrebbe dovuto scontare l’Iva, perché non imponibile (nel caso di specie si trattava di servizi aeroportuali, che l’articolo 9, comma 1, n. 6) del Dpr n. 633/1972 include tra i servizi non imponibili) o – si deve ritenere – esente o “fuori campo”.
In tali casi, rimane fermo il triplice rapporto (tra i soggetti passivi e tra ciascuno di loro e l’erario), secondo i termini indicati dalla Corte di giustizia.

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