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Giurisprudenza

Iva: legittima la compensazione
tra credito e debiti prefallimentari

Non è violato il principio di neutralità perché le operazioni Iva maturate ante fallimento, avendo autonomia giuridica rispetto a quelle post fallimentari, non sono con queste compensabili

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In materia tributaria è ammissibile la compensazione del credito Iva chiesto a rimborso dal curatore, a seguito del fallimento di una società (articolo 30, comma 2, del Dpr n. 633/1972) e i debiti contratti verso l’erario dalla società medesima in periodi d’imposta antecedenti il fallimento, perché, ponendosi la coincidenza della partita Iva per le operazioni prefallimentari e postfallimentari come circostanza meramente occasionale che non muta l'autonomia giuridica delle operazioni facenti capo al fallito, entrambe le voci di debito/credito sono sorte nel momento in cui la società era in bonis. Questo quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14620 del 29 maggio 2019.

La fattispecie sub iudice trae origine da un diniego parziale opposto dall’Amministrazione finanziaria alla domanda di rimborso del credito Iva, presentata ai sensi dell’articolo 30, comma 2, del Dpr n. 633/1972 dal curatore fallimentare a seguito dell’intervenuta dichiarazione di fallimento della società, ma secondo l’Agenzia delle Entrate, il credito Iva chiesto a rimborso poteva essere in parte compensato (ai sensi di quanto disposto dall’art.56 della legge fallimentare, Regio decreto n. 267/1942) con i debiti contratti verso l’Erario dalla società durante gli esercizi in cui era in bonis.

Di diverso avviso la società cessionaria di detto credito Iva la quale, nell’impugnare il diniego parziale di rimborso, aveva sostenuto l’assenza di reciprocità fra il debito opposto in compensazione e il suddetto credito atteso che, mentre il credito Iva era di spettanza della massa dei creditori, in quanto divenuto esigibile solo a seguito della richiesta di rimborso (e, quindi, a seguito dell’intervenuto fallimento), i debiti verso l’Erario erano imputabili alla società fallita, in quanto contratti in esercizi antecedenti il fallimento. In proposito è utile ricordare che, ai sensi della richiamata disposizione (articolo 56 della legge fallimentare), i creditori hanno diritto di compensare i crediti che essi vantano verso il fallito (ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento) coi loro debiti verso lo stesso, fermo restando che per i crediti non scaduti la compensazione non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore, con l’effetto che, requisito essenziale affinché sia applicabile la compensazione fallimentare è l’anteriorità della genesi del credito rispetto alla procedura concorsuale.

La Corte di Cassazione ha, in primo luogo, osservato che il credito Iva chiesto a rimborso si era formato in esercizi antecedenti la dichiarazione di fallimento, così come i debiti opposti in compensazione dall’Amministrazione finanziaria che, a norma dell’articolo 56 della legge fallimentare, la compensazione è ammessa anche quando il “controcredito” del fallito diviene liquido ed esigibile in un momento successivo alla data di dichiarazione di fallimento perché ciò che rileva è il fatto genetico dell’obbligazione, ossia che lo stesso sia sorto in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento (in tal senso le sentenze della Cassazione n. 144187 del 2013, n. 18915 del 2010 e n. 10025 del 2010).

In secondo luogo, la Suprema Corte reputa che detta compensazione non determina alcuna violazione del principio di neutralità dell’Iva perché, sebbene dopo la dichiarazione di fallimento il curatore fallimentare conserva la stessa partita Iva della società fallita, in nessun caso il credito Iva sorto antecedentemente a detta dichiarazione può essere compensato con Iva a debito generata in esercizi successivi. Infatti, le due posizioni Iva (quella antecedente e quella successiva al fallimento) pur essendo riferite ad un’unica partita Iva sono fra loro differenti e tale diversità, secondo la Corte, è dimostrata dal fatto che, al momento della dichiarazione di fallimento, il curatore deve redigere due dichiarazioni Iva: una avente ad oggetto le operazioni effettuate dall’imprenditore dichiarato fallito e una con riferimento alle operazioni successive alla dichiarazione di fallimento. La sussistenza di siffatti adempimenti, già disciplinati dall’articolo 74-bis del Dpr n. 633/1972 (nella formulazione assunta dopo le modifiche apportate dal Dl n. 417/1991, convertito con modificazioni con la L. n. 66/1992) e oggi contemplati dall’articolo 8, comma 4, del Dpr n. 322/1998 (nel tenore testuale risultante a seguito delle modifiche inizialmente apportate prima dall’articolo 1, comma 6, lettera b), del Dpr n. 542/1999 e dall’articolo 8, comma 1, lettera b), del Dpr n. 4357/2001 e, successivamente dall’articolo 10, comma 1, lettera a), n. 2), del Dl n. 78/2009, convertito con modificazioni, dalla L. n. 102/2009), dimostra che le operazioni Iva prefallimentari, avendo autonomia giuridica rispetto a quelle postfallimentari, non sono con queste compensabili.

A ulteriore suffragio dell’autonomia giuridica di dette operazioni la Cassazione, con la sentenza in epigrafe, evidenzia che, ai fini della richiesta di rimborso del credito Iva eventualmente emergente dalle operazioni prefallimentari, la dichiarazione di fallimento viene equiparata alla chiusura dell’attività d’impresa e ciò nonostante la permanenza della medesima partita Iva. Come già evidenziato dalla medesima Corte in precedenti incontri, solo la dichiarazione del curatore per il periodo prefallimentare, accerta formalmente la cessazione di attività e chiude l’intero rapporto tributario antecedente e proprio per questo motivo, tale dichiarazione è ritenuta equiparabile alla cessazione dell’attività, facendo sorgere il diritto della curatela fallimentare al rimborso dei versamenti che risultino effettuati in eccedenza, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 30 del Dpr n. 633/1972 (in tal senso, le sentenze della Cassazione n. 8642 del 2009, n. 14620 del 2019 e n. 4316 del 2015).

In relazione alla cennata equiparazione della dichiarazione di fallimento a quella della cessazione di attività (ai fini del riconoscimento, al curatore, del rimborso Iva), è utile ricordare, tuttavia, che si tratta di una conclusione disattesa dall’Amministrazione finanziaria, per la quale il Modello 74-bis è finalizzato a rilevare la posizione Iva del fallito alla data della dichiarazione di fallimento, senza quindi dare origine alla richiesta del rimborso dell’eccedenza detraibile o al versamento dell’imposta a debito. Inoltre, si legge nella risoluzione n. 181/1995 che: “verificandosi la prospettata ipotesi in cui “dall’apposita” dichiarazione risulti un’eccedenza d’imposta a credito, il curatore fallimentare, qualora effettui cessioni di beni (il cui possesso è stato trasferito all’ufficio fallimentare a seguito di dichiarazione di fallimento), ai fini del calcolo dell'imposta periodica da versare, potrà portare in detrazione tale eccedenza, ovvero, in assenza di operazioni imponibili, potrà, in sede di presentazione della dichiarazione annuale relativa allo stesso periodo d’imposta, computare l’imposta dell’eccedenza in detrazione nell’anno solare successivo [circolare ministeriale n. 6/1974]. Solo ai sensi ed alle condizioni previste dall’art.30, il curatore fallimentare potrà, al pari degli altri contribuenti, richiedere il rimborso del credito Iva, se ed in quanto emergente dalla dichiarazione annuale, che riassume la contabilità dell’intero periodo d'imposta (art.30, comma 2).”.

Del resto la precedente circolare n. 19/1993 aveva evidenziato che, anteriormente alla chiusura della procedura concorsuale, il rimborso del credito Iva può essere richiesto dal curatore in sede di ultima dichiarazione, dopo aver presentato la dichiarazione di cessazione dell’attività ai sensi dell’articolo 35 del Dpr n. 633/1972 e sempreché risultino ultimate tutte le operazioni rilevanti Iva, inerenti all’impresa. Sempre secondo l’Amministrazione finanziaria, infatti, il legislatore “non ha voluto discriminare la fase di gestione dell’impresa dalla fase di liquidazione, ma ha previsto l’assoggettamento alle prescrizioni di dichiarazione e di registrazione di tutte le operazioni dell’impresa sino alla data dell’ultima dichiarazione annuale, in caso di cessazione dell’attività.” (così, ancora, la risoluzione n. 181/1995).


a cura di Giurisprudenza delle imposte edita da ASSONIME
 

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