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Giurisprudenza

L’accusa di bancarotta fraudolenta
si smonta solo con difese plausibili

Pagano i dipendenti, poi falliscono. Una condotta incensurabile se, prima, parte dei lavoratori non fosse stata licenziata e le somme utilizzate per gli stipendi troppo alte

cubo di rubik smontato
All’imprenditore accusato di bancarotta fraudolenta non basta invocare la circostanza di aver effettuato pagamenti “in nero” ai dipendenti se la somma “distratta” è molto ingente, tanto che i lavoratori avrebbero dovuto lavorare pure di notte.
È questo il principio che si ricava dalla sentenza n. 45665 del 17 novembre 2015, con cui la Cassazione ha confermato la pronuncia impugnata, avvalorando il ragionamento logico-giuridico posto alla base della stessa.
 
La vicenda processuale
La Corte d’appello di Salerno confermava la sentenza di primo grado con cui tre soggetti erano stati condannati per bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale, ovvero per avere, in qualità di amministratori e soci di una Srl poi fallita, tenuto i libri e le scritture contabili in maniera da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del volume d’affari della società, nonché per aver distratto un’ingente somma (circa un miliardo delle vecchie lire) registrata in contabilità sotto il conto “finanziamento ai soci”.
Con il successivo ricorso per cassazione, gli imputati denunciavano, tra l’altro, il vizio di motivazione della sentenza impugnata per aver ritenuto eccessivo l’importo delle somme distratte in relazione agli straordinari da pagare, senza considerare le argomentazioni contenute nell’atto di appello circa la presenza di operai non iscritti nel “libro paga" né la coincidenza dei tempi tra la presunta distrazione e il licenziamento degli operai.
 
La pronuncia della Cassazione
La suprema Corte ha rigettato il ricorso, condannando i proponenti alla refusione delle spese processuali.
Secondo i giudici di legittimità, la Corte d’appello ha giustamente ritenuto poco credibile l’asserzione difensiva concernente la destinazione della somma “distratta” al pagamento in nero degli operai.
Infatti, “per quanto concerne la destinazione della somma indicata come "distratta" al pagamento in nero degli operai, i quali in dibattimento hanno confermato di essere stati pagati fuori busta paga, non si presenta illogica la motivazione fornita dalla Corte territoriale circa la non plausibilità di tale versione, per essere davvero ingenti le somme in questione, tali che i dipendenti avrebbero dovuto lavorare anche di notte per giustificare importi sì elevati e comunque nell'anno 2000 essi erano stati già tutti licenziati, sicché non vi era necessità di corrispondere straordinari in nero”.
 
Osservazioni
La sentenza in esame offre lo spunto per ricordare i diversi casi di bancarotta fraudolenta, che si articolano sostanzialmente in:
  • bancarotta fraudolenta patrimoniale, che si realizza quando l’imprenditore distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, espone passività inesistenti
  • bancarotta fraudolenta documentale, quando sottrae, distrugge o falsifica, in tutto o in parte, in modo tale da procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li tiene in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari
  • bancarotta fraudolenta preferenziale nell’ipotesi in cui, allo scopo di favorire taluni creditori rispetto ad altri, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
 
La bancarotta fraudolenta patrimoniale è reato di pericolo. Il crimine consiste nell’aver cagionato, assai prima dello stato di insolvenza o del fallimento, il depauperamento dell’impresa, per averne destinato le risorse a impieghi estranei all’attività della società. La rappresentazione e la volontà dell’agente debbono perciò inerire alla diminuzione del patrimonio, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica ma da quelli che implichino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa.
 
Secondo consolidata giurisprudenza (cfr Cassazione, sezioni unite, sentenza 21039/2011, nonché sentenza 47616/2014), il dolo deve riguardare la condotta, non invece la rappresentazione del successivo evento del fallimento: laddove il legislatore ha inteso individuare la necessità di un nesso causale, prima ancora di una riferibilità psicologica, fra il comportamento del soggetto attivo del reato e il successivo dissesto, o il fallimento che ne sia derivato, ciò è espressamente prescritto.
La rappresentazione e la volontà dell’agente devono, perciò, inerire alla deminutio patrimonii (semmai, occorre la consapevolezza che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio dell’attività imprenditoriale): tanto basta per giungere all’affermazione del rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale è sì necessario il successivo fallimento, ma non già che questo sia oggetto di rappresentazione e volontà da parte dell’autore.
 
La bancarotta fraudolenta patrimoniale è dunque, più propriamente, reato di pericolo concreto, dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento.
Ed è per questo che rimane esente da pena il soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque continuare a disporre di beni rilevanti, idonei a garantire le possibili pretese creditorie: in tal caso, non si ravvisa alcun pericolo concreto che possa determinare lo stato di insolvenza e la dichiarazione di fallimento.
 
In sostanza, l'imprenditore deve considerarsi sempre tenuto a evitare l'assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell'impresa.
 
Nell’ambito del reato dibattuto nella sentenza in esame, l’attività di “distrazione” assume una valenza residuale poiché comprende tutto quanto non rientra nelle altre condotte materiali indicate dall’articolo 216 della legge fallimentare, purché consista nell'uscita, non giustificabile in termini di logica di impresa, di beni dal patrimonio con conseguente impoverimento.
Quando è stata fornita una definizione positiva del concetto di distrazione si è sottolineato:
- ogni forma di diversa e ingiusta destinazione volontariamente data al patrimonio rispetto ai fini che questo deve avere nell'impresa quale elemento necessario per la sua funzionalità e quale garanzia verso i terzi
- ogni fatto di estromissione di un bene dal patrimonio (con o senza contropartita) finalizzato a sottrarre e a diminuire la garanzia dei creditori.
 
L'uscita del bene deve avvenire senza che vi sia una ragione giuridica: è questo il confine con la bancarotta preferenziale.
La “distrazione”, come nozione residuale, è oggetto di accertamento induttivo: tutto ciò che non trova, in seno allo sbilancio fallimentare, una corrispondenza tra impieghi e attività, viene addebitato all'imprenditore come ricchezza distratta, salva sua spiegazione.
Nel caso in questione, i giudici di merito, con motivazione logica e congrua, hanno ritenuto poco plausibile l’asserzione difensiva concernente la destinazione della somma “distratta” al pagamento in nero degli operai.
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