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Giurisprudenza

Per l’acquisto di auto il figlio
deve provare il dono del padre

Il contribuente ha l’onere di documentare l’entità dei redditi di provenienza familiare e la durata del possesso pur non dovendone dimostrare l'impiego per l'effettuazione delle spese contestate

auto con fiocco

In tema di redditometro, l’Amministrazione finanziaria ha l’unico obbligo di esporre, in maniera corretta e puntuale, gli elementi indicatori di capacità contributiva, essendo dispensata da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva. È onere del contribuente dimostrare in contraddittorio che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.
Questo il principio affermato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 23377 del 19 settembre 2019.

Il fatto
La vicenda processuale ha origine dal ricorso proposto da un contribuente avverso due avvisi di accertamento, con cui l’Agenzia delle entrate aveva rettificato in via presuntiva il reddito sulla base delle spese relative all’acquisto di tre autovetture, non coerenti con il suo profilo reddituale.
Questi, a sua volta, aveva contestato la pretesa erariale deducendo di essere studente universitario e di non percepire, per tale motivo, alcun reddito e che le autovetture, prese a base per il calcolo del reddito sintetico, erano state acquistate con liberalità del padre.
Il ricorso è stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale, che ha ritenuto superato l’onere probatorio, perché l’acquisto delle autovetture in esame doveva ricollegarsi al denaro donato dal padre del ricorrente.
In riforma della decisione di primo grado la Commissione tributaria regionale accoglieva invece le doglianze dell’Amministrazione finanziaria, riconoscendo che il contribuente non fosse stato in grado di dimostrare e documentare adeguatamente che l’acquisto delle auto era ricollegato alle liberalità paterne di cui, peraltro, non era stata provata la sussistenza. I giudici d’appello non hanno ritenuto sufficiente la documentazione bancaria prodotta, da cui emergevano solo generiche operazioni di giroconto e di prelevamenti in contante dal conto del padre del soggetto accertato.
Il contribuente ha impugnato la decisione dinanzi ai giudici della Corte di cassazione, che hanno ritenuto infondata la tesi del ricorrente e rigettato il ricorso.

La decisione
Nella decisione in commento i giudici di legittimità hanno confermato un orientamento oramai consolidato per cui la disponibilità da parte del contribuente dei beni, indice di capacità contributiva, integra ex se una presunzione legale. Questa, in quanto tale, è idonea ad assicurare valido fondamento all’accertamento sintetico, risultando superflua la presenza di ulteriori elementi indiziari precisi, gravi e concordanti (necessaria in caso di presunzioni semplici).
Di conseguenza, l’ufficio finanziario che accerti con metodo presuntivo ha l’unico obbligo di esporre in maniera corretta e puntuale gli elementi indicatori di capacità contributiva, non avendo l’onere di produrre prova ulteriore rispetto all’esistenza di tali fattori, giacché gli stessi sono individuati nei decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992 (cfr Cassazione 5688/2019).
Tale principio non lede il diritto alla difesa da parte del contribuente perché, una volta instaurato in maniera corretta il contraddittorio con l’ufficio, egli ha la possibilità di fornire la prova contraria alla pretesa erariale, dimostrando l’esistenza e l’entità di una pregressa e legittima disponibilità finanziaria, oltre alla durata del possesso della stessa (cfr Cassazione 23252/2019).
L’articolo 38 del Dpr 600/1973, nella versione antecedente la modifica apportata dall’articolo 22 del Dl 78/2000, prevedeva infatti una prova rafforzata (“l'entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”), ulteriore rispetto alla mera disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta. La disposizione vigente ratione temporis, “pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate esige, tuttavia, una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere.”

Nell’ipotesi in cui il soggetto accertato deduca che la spesa sia il frutto di liberalità proveniente dal proprio nucleo familiare, non può ritenersi superato l’onere probatorio con la semplice dimostrazione di capacità contributiva familiare, perché non è detto che tale reddito – seppur capiente – sia stato impiegato proprio per sopperire alle esigenze del familiare controllato.
Il contribuente ha quindi l’onere di provare e documentare l’entità dei redditi di provenienza familiare e la durata del possesso in capo a se stesso, “pur non essendo lo stesso tenuto a dimostrare l'impiego di detti redditi per l'effettuazione delle spese contestate, attesa la fungibilità delle diverse fonti di provvista economica” (cfr Cassazione 7257/2019 e 7757/2018).
In sede contenziosa il giudice tributario, una volta appurata la correttezza degli elementi indicatori di capacità contributiva posti a base dell’accertamento, può solo valutare la bontà della prova che il ricorrente produce in merito alla provenienza non reddituale della provvista utilizzata per il compimento delle spese.
Nel caso di specie la prova contraria offerta al giudice, consistente in generiche operazioni bancarie di prelevamenti di denaro in contante e nell’affermazione dello status di studente universitario non percipiente reddito, non è stata ritenuta idonea a superare la pretesa erariale e, da qui, la conferma della legittimità dell’accertamento presuntivo operato dall’ufficio.

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