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Giurisprudenza

L’analisi del transfer pricing prescinde dalla valutazione degli indebiti risparmi d’imposta

La Suprema corte, con la sentenza n. 22023/2006, ha invece esteso alla fattispecie regolata dall’articolo 110, comma 7 del Tuir, un requisito che è tipico delle disposizioni antielusive

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L’ufficio [è tenuto ad] accertare…se veramente la fiscalità in Italia era all’epoca superiore rispetto a quella in vigore nei paesi di provenienza dei veicoli compravenduti. In secondo luogo, determinare il valore normale dei veicoli acquistati…”.
Questi sono i due “passaggi obbligati” che dovranno essere seguiti in materia di transfer pricing, secondo la sentenza n. 22023, del 22 giugno 2006, della Cassazione, depositata il 13 ottobre 2006.
Tuttavia, mentre il secondo passaggio deriva direttamente dal settimo comma dell’articolo 110 del Tuir, dagli articoli 9 delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia e dalle guidelines dell’Ocse in materia di prezzi di trasferimento, il primo passaggio non assume rilevanza giuridica in materia di transfer pricing.

Il che induce a domandarsi quali siano le ragioni che abbiano indotto il Supremo collegio ad attribuire rilevanza – in materia di transfer pricing – alla verifica del requisito dell’ottenimento di un indebito risparmio d’imposta.
Dall’esame sia del fatto che dell’iter logico-argomentativo della sentenza emerge chiaramente come il predetto “passaggio obbligato” sia derivato da un’impropria estensione al transfer pricing del requisito dell’indebito risparmio d’imposta, tipico delle disposizioni antielusive.

Il caso sottoposto all’esame della Corte riguardava la ripresa a tassazione di presunte sovrafatturazioni di autovetture, acquistate da società estere del gruppo da parte di una società residente in Italia. In particolare, l’ufficio impositore aveva ipotizzato un costo maggiore di quello normale da stabilire secondo le previsioni dell’articolo 76 (ora 110) del Tuir, in quanto la società residente in Italia si era accollata senza compenso l’onere gravante per legge sulla società costruttrice delle riparazioni e manutenzioni delle vetture nuove, realizzando in tal modo una riduzione dell’imponibile in Italia “a vantaggio di maggiori profitti di consociate operanti in paesi a più bassa fiscalità”.

Tale contestazione dell’ufficio veniva rigettata in entrambi i gradi del giudizio di merito, sia per l’esistenza di un valido accordo di gruppo che, in base alla Convenzione di Vienna, non richiedeva l’approvazione scritta delle clausole limitative di responsabilità, sia perché “l’Ufficio non aveva dimostrato il presupposto che avrebbe reso fiscalmente utile tutta l’operazione, cioè la più bassa fiscalità nel periodo in questione dei paesi nei quali la [società italiana] acquistava le vetture”.

A sua volta, l’Amministrazione finanziaria replicava che la società italiana rivenditrice veniva a sopportare spese aggiuntive, non essendovi prova dell’applicazione di una riserva di garanzia nella determinazione del transfer pricing, “per cui la mancanza di una garanzia legale per vizi veniva a riverberarsi sul valore normale di transazione con effetti quanto meno elusivi”. Il che era ulteriormente suffragato dalla circostanza che non era stato esibito in sede di verifica alcun elemento comprovante i suddetti obblighi negoziali, né la Convenzione di Vienna poteva salvaguardare la validità di contratti irragionevolmente escludenti il ricorso alla garanzia per vizi.

Come può notarsi, è già nella ricostruzione dei fatti che è sorto l’equivoco secondo cui una contestazione del valore normale ex articolo 76 (ora 110), settimo comma, del Tuir, abbia bisogno di una dimostrazione dell’indebito risparmio d’imposta, in un’ottica antielusiva.
In particolare, lo stretto collegamento – asserito sia dall’ufficio impositore sia dal giudice di merito – tra determinazione del valore normale e presunti effetti elusivi, derivanti dal più basso livello di fiscalità dello Stato estero, è assurto a una sorta di postulato sottostante all’inquadramento dei fatti oggetto di causa.

Sulla base di tale impostazione dei fatti oggetto di causa, la Suprema corte ha subito sgombrato il terreno sul versante degli obblighi contrattuali, rilevando sia l’esistenza di una direttiva della capogruppo mai messa in discussione, sia la natura transnazionale dell’operazione, la quale fa ricadere la stessa nell’ambito di applicazione della Convenzione di Vienna, il cui articolo 11 sancisce il principio della libertà di forma. Il che comporta che “l’accordo di accollo di garanzia non necessitava, quindi, di formalizzazione alcuna”.

Peraltro, le raccomandazioni Ocse contenute nel Rapporto del 1995 (Transfer pricing guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations), in merito alla disamina dei cosiddetti cinque fattori della comparabilità, precisano che l’analisi delle condizioni contrattuali tra le imprese in verifica deve basarsi sul principio della prevalenza della sostanza sulla forma (substance over the form principle). Le stesse guidelines precisano che, qualora i termini delle transazione non siano riprodotti in forma scritta, i rapporti contrattuali tra le imprese devono dedursi sulla base dei principi che regolerebbero transazioni tra parti indipendenti (punti 2 e 3 del paragrafo C-i)-b)).

La Cassazione si è poi soffermata sulla questione centrale della determinazione del valore normale. Ed è su questo specifico e fondamentale aspetto che l’improprio inquadramento dei fatti ha comportato una conseguente impropria qualificazione degli stessi.
Infatti, il Collegio, richiamando le precisazioni dei giudici di appello, ha affermato che “a fronte di un accordo internazionale di gruppo che forniva indizi probatori univoci in tal senso, era l’amministrazione onerata di dimostrare in concreto che la regola di assorbimento della garanzia non era rispettata e costituiva metodo elusivo per scaricarsi costi (riducendo gli utili) nel paese di più bassa fiscalità”.

Subito dopo, i giudici di legittimità hanno aggiunto che “lo scopo della disciplina dettata dall’articolo 76, V° co. Del TUIR è di evitare che all’interno del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori”.
Ancora, tale disciplina assume la connotazione di “clausola antielusiva che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto…ma anche immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale essendo consentito all’Amministrazione finanziaria di disconoscere – ad esempio – i vantaggi fiscali conseguiti da operazioni societarie (art. 10 L. 408/90) poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta”.

Tutto ciò premesso, la Corte ha ritenuto che, come già precisato in precedenti giurisprudenziali e come si evincerebbe dal rapporto dell’Ocse del 1995 in materia di prezzi di trasferimento, “l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava in ogni caso sull’Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche”.

Come può agevolmente notarsi, nella riportata costruzione dell’argomentazione giuridica, il giudice di legittimità ha ritenuto che la problematica di determinazione del valore normale che connota il transfer pricing sia riconducibile al più ampio genus dell’abuso del diritto tributario (o dell’elusione fiscale, che dir si voglia).
Di qui l’equivoco di fondo di ritenere applicabile anche al transfer pricing il requisito dell’indebito risparmio d’imposta, uno dei fondamentali requisiti caratterizzanti l’elusione fiscale.

Solo sulla scorta della dinamica dei fatti di causa e della conseguente impropria qualificazione giuridica si possono, perciò, comprendere le conclusioni della Cassazione, secondo cui “l’Ufficio, in ottemperanza ai richiamati principi, avrebbe dovuto, innanzitutto, accertare - come evidenziato dalla sentenza impugnata – se veramente la fiscalità in Italia era all’epoca superiore rispetto a quella in vigore nei paesi di provenienza dei veicoli compravenduti. In secondo luogo, determinare il valore normale dei veicoli acquistati…”.


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