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Giurisprudenza

Legittimo l'accertamento basato sul consumo dei tovaglioli

Consente di presumere il numero di pasti effettivamente forniti dal ristorante così da ricostruirne i ricavi

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L'ufficio finanziario notificava a una Srl, esercente l'attività di ristorazione, un avviso d'accertamento, in quanto riteneva che le perdite registrate derivavano da una mancata contabilizzazione di ricavi e da una dilatazione di costi.
In particolare, le rettifiche operate dall'ufficio, ai sensi dell'articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/73, erano confermate dai seguenti rilievi:

  • acquisti di fiori e di torte in quantità non proporzionata al numero di coperti fatturati
  • ricarico medio su vini e liquori (40 per cento) e sui secondi piatti (68 per cento) esiguo rispetto alla media praticata
  • utilizzo del metodo del "tovagliometro" (tovaglioli lavati, meno il 10 per cento per il costo servizi) che evidenziava ricavi non fatturati.

La società impugnava l'accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, la quale accoglieva il ricorso osservando che gli elementi dedotti dall'ufficio erano privi dei requisiti di cui all'articolo 39, comma 1, lettera d, Dpr n. 600/73.
La Commissione tributaria regionale, invece, accoglieva l'appello dell'ufficio ritenendo che gli indizi raccolti si basavano su presunzioni semplici, ma gravi, precise e concordanti.

Avverso tale sentenza la citata società propone ricorso per cassazione denunciando sia la violazione dell'articolo 39, primo comma, lettera d), del Dpr 600/73, nonché il difetto di motivazione, sia che in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, la prova per presunzioni dell'esistenza di attività non dichiarate o dell'inesistenza di passività dichiarate deve rispondere ai requisiti di cui all'articolo 2729 c.c., ovvero deve reggersi su presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti.
Pertanto, a parere del contribuente, il ragionamento dei giudici di merito, avendo prospettato "una ricostruzione sul piano della verosimiglianza", incorreva in violazione dell'articolo 39, primo comma, lettera d), del Dpr 600/73.
L'Amministrazione finanziaria resiste con controricorso.

Tanto premesso, i giudici di legittimità, con la sentenza de qua, hanno rigettato il ricorso del contribuente sostenendo non censurabile in sede di legittimità la valutazione operata dalla Commissione tributaria regionale, avendo i giudici di merito ritenuto l'esistenza di ricavi non registrati e non dichiarati "sulla base di una pluralità di fatti certi, la cui valenza probatoria è stata esaminata con adeguata motivazione, priva di errori logici e giuridici".

E' opportuno evidenziare che, in materia di accertamento delle imposte sui redditi d'impresa, l'articolo 39, primo comma, lettera d), del Dpr 600/73, consente all'ufficio di procedere alla rettifica della dichiarazione del contribuente mediante un tipo di accertamento definibile, in ragione del metodo logico adottato, analitico-induttivo.
Secondo la costante giurisprudenza della Corte, per l'accertamento analitico-induttivo non è richiesto che le violazioni degli obblighi contabili siano tali da fare dichiarare complessivamente inattendibile l'intera contabilità, ma è sufficiente che la stessa non dia garanzia di affidabilità e congruità sostanziali.

In buona sostanza, l'accertamento analitico-induttivo è effettuato dall'ufficio in presenza di scritture contabili regolarmente tenute dal punto di vista formale o, comunque, inficiate da vizi formali di modesta entità, che siano però affette da incompletezze, inesattezze e infedeltà valutate sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti (articolo 2729 c.c.).
Per ritenere correttamente desunta una presunzione semplice, purché sia grave precisa e concordante, non è necessario che la relazione tra il fatto noto e quello ignoto abbia il carattere della "necessità", essendo sufficiente che l'esistenza del fatto ignoto da dimostrare derivi dall'esistenza del fatto noto come "conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile" (Cass. n. 2700 del 26/03/1997; Cass. n. 5082 del 06/06/1997; Cass. n. 8494/98; Cass. n. 9782 del 14/09/1999).

Pertanto, sulla base di quanto precede, i giudici di legittimità hanno ritenuto corretto il procedimento accertativo "analitico-induttivo" posto in essere dall'ufficio, costituendo un dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo ed essendo, quindi, "ragionevolmente possibile e verosimile ricavare dal numero dei tovaglioli usati il numero dei pasti consumati", pur dovendosi "ragionevolmente sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi" (pasti dei soci e dei dipendenti o l'uso da parte dei camerieri, eccetera).

In definitiva, per la Corte di cassazione il "consumo unitario dei tovaglioli impiegati, ovvero il numero di questi, rappresenta un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente, cioè del tutto legittimamente presumere il numero di pasti effettivamente forniti dall'impresa di ristorazione, così da ricostruirne i ricavi in sede di accertamento analitico-induttivo di tali specifiche poste" (Cass. n. 9884 del 08/07/2002; Cass. n. 15991 del 20/12/2000; Cass. n. 51 del 07/01/1999; Cass. n. 2309 del 05/03/1991).

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