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Giurisprudenza

Con l’eredità, pacchetto completo:
oneri e onori, crediti e debiti

Per non rischiare di rispondere con i beni propri del passivo maturato dal defunto nei confronti del Fisco è possibile rinunciare al lascito o accettare con beneficio d’inventario

L’erede che non ha rinunciato all’eredità succede nei rapporti attivi e passivi e subisce tutte le conseguenze della eventuale posizione debitoria del de cuius, debitore principale. Nel caso di notifica di cartella di pagamento, che contenga una pretesa tributaria resasi definitiva per mancata impugnazione, l’erede non può rimettere in discussione la pretesa del Fisco se non per fatti successivi all’apertura di successione, che abbiano determinato la decadenza dell’amministrazione finanziaria (Commissione tributaria regionale di Potenza, sentenza n. 266, sezione 3, del 17 giugno 2017).
 
La vicenda processuale e la decisione della Ctr
La vicenda è quella di un erede cui veniva notificata una cartella di pagamento con la quale veniva richiesto il pagamento dell’Iva per l’anno 1995, dichiarata e non versata dal de cuius.
Adita la competente Commissione tributaria provinciale, il ricorrente eccepiva l’illegittimità della cartella per carenza di prova del debito, per omessa motivazione e per prescrizione decennale.
Tale assunto difensivo ha convinto la Commissione di primo grado, che ha annullato il titolo di pagamento, rilevando anche la mancata prova della notifica dell’avviso bonario previsto dall’articolo 6, comma 5, dello Statuto del contribuente.
 
Avverso la predetta pronuncia ha proposto appello l’ufficio, evidenziando che il debito tributario si era reso definitivo per mancata impugnazione della cartella di pagamento debitamente notificata al de cuius.
L’Agenzia delle entrate ha sottolineato, inoltre, che era irrilevante la notifica dell’avviso bonario, atteso che tale atto è previsto solo quando ci sono incertezze sui dati della dichiarazione; nel caso di specie, si trattava di omessi versamenti emersi dalla liquidazione della dichiarazione presentata dal contribuente.
La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello dell’ufficio e dichiarato la legittimità della cartella di pagamento e statuito l’obbligo di pagamento dell’erede.
 
In particolare, i giudici hanno affermano che la questione di merito sollevata dal ricorrente “va ricondotta nell’ambito del rapporto tra dante causa ed erede, nel senso che se la pretesa tributaria nei confronti del de cuius, debitore principale, si era resa definitiva ed incontestabile, l’erede, succeduto nei rapporti attivi e passivi e non rinunciante all’eredità, deve subire le conseguenze della eventuale debitoria del suo dante causa e non può rimettere in discussione la pretesa del Fisco, se non per fatti successivi all’apertura della successione, che abbiano determinato decadenza dell’amministrazione”.
Nel caso in esame, è circostanza non contestata che la pretesa dell’Erario si era resa definitiva per omessa impugnazione della cartella a sua tempo emessa e validamente notificata al debitore principale.
 
I giudici di appello hanno sconfessato anche la tesi dei giudici di primo grado, secondo cui la notifica della cartella nei confronti dell’erede doveva essere preceduta dall’emissione dell’avviso bonario, affermando che l’ufficio finanziario ha l’obbligo di instaurare il contraddittorio con il contribuente, prima dell’iscrizione a ruolo, soltanto qualora emergano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, mentre tale obbligo viene meno in caso di mera tardività del versamento delle imposte dovute.
Al riguardo, la Ctr richiama l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, ampiamente consolidato (Cassazione 15311/2014 e 17396/2010), confermato anche con la sentenza 5394/2016, che ha ribadito che l’obbligo del contraddittorio preventivo non opera in tutti i casi in cui si debba procedere a iscrizione a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, “ma soltanto qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione (v. Cass. n. 7536/2011; n. 795/2011; n. 26316/2010, diffusamente 25 maggio 2012, n. 8342)”.
 
Osservazioni
La sentenza in commento affronta la dibattuta questione della posizione dell’erede nei confronti dei debiti tributari del de cuius.
In via generale, l’erede succede nella posizione giuridica e acquista il patrimonio del defunto nelle voci attive e subentra nella titolarità dei rapporti giuridici passivi dei quali fanno parte anche i rapporti obbligatori di natura tributaria.
Gli articoli 752 e seguenti del codice civile disciplinano il pagamento dei debiti del de cuius e dispongono che la responsabilità dei coeredi al pagamento dei debiti e pesi ereditati sia in proporzione alle loro quote ereditarie, salvo una disposizione testamentaria difforme. Dunque, l’erede è chiamato a rispondere di tutti i debiti facenti capo al defunto, non soltanto con i beni oggetti del patrimonio dell’estinto, ma altresì, nel caso in cui questi ultimi non siano sufficienti al loro assolvimento, con il proprio patrimonio personale. La trasmissibilità non riguarda le eventuali sanzioni e, pertanto, gli eredi sono responsabili unicamente della somma capitale e dei relativi interessi.
 
L’articolo 65 del Dpr 600/1973, in deroga alla suddetta responsabilità pro quota, prevede che, per le obbligazioni di carattere tributario, gli eredi sono responsabili in solido e non per quota ereditaria.
Tuttavia, ai sensi dell’articolo 459 del codice civile, “l’eredità non si acquista che per accettazione” e, quindi, solo da detta accettazione deriva la responsabilità degli eredi in relazione alle situazioni giuridiche passive del defunto; considerato che tale accettazione può essere anche tacita, si pone la necessità di individuare quei comportamenti del successore che configurano l’accettazione tacita dell’eredità.
In tema di accettazione dell’eredità e dei debiti tributari a essa collegati, la Corte di cassazione, con la recente sentenza 8053/2017, ha statuito che il presupposto perché si possa rispondere dei debiti ereditari del de cuius è “l’accettazione dell’eredità, un’eventuale rinuncia, anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario, sempre che egli non abbia posto in essere comportamenti dai quali desumere un’accettazione implicita dell’eredità, ma della relativa prova l'Amministrazione finanziaria è parte processualmente onerata”.
Per non incorrere nel rischio di essere chiamati a rispondere con i beni propri dei debiti del defunto, esistono due forme di tutela da parte dell’erede: la rinuncia all’eredità nelle forme previste dall’articolo 519 del codice civile; l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario.
La sentenza della Ctr in commento ribadisce proprio tale assunto laddove, in materia di diritto di difesa, ha affermato che l’ordinamento appresta uno specifico rimedio all’erede, costituito dall’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario.
 
Nello specifico, secondo la Commissione regionale, non vi è una limitazione del diritto di difesa laddove non venga concesso all’erede di far valere eventuali vizi dell’atto impositivo o di quello di riscossione ascrivibile alla liquidazione della dichiarazione del defunto, “potendosi trovare nella condizione di colui che non ha partecipato al procedimento di accertamento nei confronti del dante causa e quindi ne ignora gli esiti, le conseguenze, che possono essere anche devastanti per il suo patrimonio che ormai si è venuto a confondere con quello del dante causa”. Ad avviso del collegio giudicante “tale limitazione del diritto è soltanto apparente atteso che l’ordinamento appresta uno specifico rimedio costituito dall’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario”.
 
Invero, in tale ipotesi si comporta una limitazione legale della responsabilità patrimoniale dell’erede per i debiti ereditari entro il valore massimo dell’eredità ricevuta. Il beneficio d’inventario, di cui la legge ne richiede la forma solenne della dichiarazione ricevuta da un notaio o da un cancelliere del tribunale del circondario ove la successione si è aperta, è rimesso alla facoltà di ogni chiamato, che ha l’onere di specificare nell’atto di accettazione se intenda avvalersi di tale diritto.
 
La Corte di cassazione è stata chiamata più volte a pronunciarsi sugli effetti dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, affermando che “la limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti ereditari, derivante dall’accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, è opponibile a qualsiasi creditore, ivi compreso l'erario. Quest’ultimo, di conseguenza, pur potendo procedere alla notifica dell'avviso di liquidazione nei confronti dell'erede (anche nel caso in cui questi abbia rilasciato i beni ereditari in favore dei creditori), non può liquidare od esigere nei confronti dell’erede l'imposta ipotecaria, catastale o di successione sino a quando non si sia chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari, e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell'erede” (Cassazione, pronunce 14847/2015 e 4419/2008; in termini analoghi, anche Cassazione, sentenze 5529/1983, 25670/2008, 13906/2008 4419/2008).
Di conseguenza, è legittima la cartella di pagamento emessa nei confronti dell’erede, salvo il diritto di costui a procedere al pagamento solo nei limiti dell’attivo ereditario (Cassazione, 23019/2016).
 
Al fine di far valere questa posizione anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria, occorre tuttavia porre in essere determinati adempimenti debitamente prescritti anche dal decreto legislativo 346/1990 (Testo unico sulle successioni).
In merito a tale profilo, la Cassazione, con due pronunce emesse lo stesso giorno, ha ribadito che, ai fini della determinazione dell’imposta di successione, non c’è differenza tra l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario e quella pura e semplice, e spetta sempre al chiamato provvedere a documentare, ai sensi delle disposizioni dell’articolo 23, Dlgs 346/1990, le dedotte passività e procedere alla redazione dell’inventario, ottemperando a quanto disciplinato dagli articoli 485 e 487 del codice civile (Cassazione, sentenze 4564 e 4566 del 22 febbraio 2017).
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