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Giurisprudenza

L’esame della documentazione
non obbliga al contraddittorio

Procedimento di accertamento e mero controllo dei dati acquisiti sono cose diverse: l’avviso è ok anche senza il preventivo confronto sulle risultanze della verifica bancaria

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La Suprema corte, nella sentenza n. 14026/2012, ha ritenuto che le norme tributarie distinguono in modo netto il procedimento di accertamento in senso stretto dall’attività che si esaurisce nel mero controllo della documentazione pervenuta agli uffici finanziari, essendo solo nel primo caso previste specifiche garanzie di difesa del contribuente. Conseguentemente tale esigenza non si pone in relazione all’attività di controllo dei dati acquisiti attraverso inviti e richieste di trasmissione agli uffici finanziari di dati, documenti e informazioni, ai sensi dell’articolo 32, comma 1, nn.3 e 8-ter), del Dpr n. 600/1973 e dell’articolo 51, comma 2, nn. 3 e 7-bis), del Dpr n. 633/1972, previsti in tema di controlli bancari.
 
Articolata sentenza della Corte di cassazione in tema di necessità del contraddittorio tra i contribuenti sottoposti a controllo bancario e gli uffici finanziari procedenti, necessità esclusa in base a varie argomentazioni, le quali trovano tutte la loro cartina di tornasole nell’esclusione di alcun vincolo costituzionale o comunitario per il legislatore nazionale.
Infatti, viene immediatamente evidenziato come la legge generale n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, all’articolo 9 rubricato “Intervento nel procedimento” che regola l’intervento facoltativo di qualunque soggetto “cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento”, risulta inapplicabile per l’espressa deroga disposta per i procedimenti tributari dal successivo articolo 13, comma 2, in quanto esclude l’applicazione alla materia tributaria con riferimento specifico alle disposizioni previste dall’articolo 7 all’articolo 10 della legge n. 241/1990.
Peraltro, la pronuncia in commento precisa che sussisterebbe, comunque, una “non integrale assimilabilità del predetto tipo di intervento del privato al pieno esercizio del diritto al contraddittorio (tenuto conto dei limitati <diritti> concessi dall’art.10 della medesima L. n. 241 del 1990, al destinatario dell'atto ed agli interventori necessari o facoltativi”, con l’effetto che si impone di verificare quale sia l’ambito riservato dalle norme tributarie all’attuazione del principio del contraddittorio al procedimento accertativo tributario.
 
La panoramica della legislazione in materia offerta dai giudici di legittimità con la pronuncia in rassegna risulta esaustiva perché le norme tributarie distinguono in modo netto il procedimento di accertamento in senso stretto (che comporta accessi, ispezioni e verifiche fiscali “nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali” e i cui risultati sono compendiati in un processo verbale delle operazioni compiute) dall’attività che potrebbe esaurirsi in un mero controllo della documentazione pervenuta agli uffici finanziari.
Soltanto nella prima ipotesi, come noto, sono previste specifiche garanzie di difesa del contribuente (diritto a essere informato delle ragioni della verifica; facoltà di farsi assistere da professionista abilitato alla difesa avanti i Giudici tributari; formulazione di osservazioni e rilievi in corso di verifica; comunicazione di osservazioni e richieste successivamente al rilascio del verbale di chiusura delle operazioni) e, per la sentenza in nota, “giustificate dalla complessità delle indagini e dal carattere particolarmente pervasivo dei poteri di indagine che vengono di fatto ad interferire con lo stesso svolgimento dell'attività economica del contribuente”.
 
Tale esigenza non si pone, invece, sempre per la decisione in commento, in relazione all’attività di controllo dei dati acquisiti attraverso inviti e richieste di trasmissione agli uffici finanziari di dati, documenti e informazioni, effettuate ai sensi dell’articolo 32, comma 1, n. 3 – n. 8-ter), del Dpr n. 600/1973, e dell’articolo 51, comma 2, nn. 3 – 7-bis), del Dpr n. 633/1972, in quanto il legislatore ha reputato prevalenti le esigenze di funzionalità degli uffici ed efficienza dell’azione amministrativa rispetto all’anticipata partecipazione del privato già nella fase istruttoria della ricerca, in quanto i dati e le informazioni dovranno essere poi sottoposti a controllo ai fini dell’esercizio - peraltro solo eventuale - della potestà di accertamento (con l’eccezione delle ipotesi in cui è lo stesso ufficio finanziario a chiedere la comparizione personale, o a mezzo di rappresentante, del contribuente - ex articolo 32, comma 1, n. 2, del Dpr n. 600/1973, ed ex articolo 51, comma 2, n. 2, del Dpr n. 633/1972 - per esibire documenti in suo possesso, fornire chiarimenti e giustificazioni, eccetera).
 
La verifica della compatibilità costituzionale di tale preclusione alla partecipazione del contribuente all’attività di controllo viene effettuata dalla pronuncia in commento rammentando come la Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 119/2003 aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 33 del Dpr n. 600/1973, e dell’articolo 63 del Dpr n. 633/1972, relativamente alla lesione del diritto di difesa tutelato dall’articolo 24 della Costituzione, in quanto tali norme “prevedendo soltanto che l’amministrazione finanziaria possa ricevere <documenti, dati o notizie> acquisiti nel corso di indagini penali, per porli a base della propria attività di accertamento, non limitano la possibilità per il contribuente di contestare i risultati di quegli atti di indagine dinanzi al giudice tributario”.
Pertanto, alcuna restrizione al diritto di difesa viene enucleata dalla Corte regolatrice del diritto nella decisione in rassegna poiché alcuna limitazione è imposta all’effettività del contraddittorio nella successiva fase amministrativa (ossia, dell’accertamento con adesione) ovvero in quella giudiziaria, rilevando come il contribuente ha tempestiva notizia dalla stessa banca con la quale intrattiene i rapporti finanziari.
 
Riguardo al profilo comunitario, viene citata la sentenza della Corte di giustizia 18 dicembre 2008, n. C-349/07, secondo la quale deve ritenersi, in linea di principio, conforme alle prescrizioni del diritto comunitario, al fine di procedere al recupero a posteriori di dazi doganali all’importazione, un termine da otto a quindici giorni concesso all’importatore sospettato di aver commesso un’infrazione doganale affinché questi presenti le proprie osservazioni.
A tal proposito, la pronuncia in commento ritiene sufficiente la fruibilità del procedimento di accertamento con adesione, mentre il giudice comunitario aveva affermato che spetta al giudice nazionale adito stabilire se, alla luce delle circostanze particolari della causa, il termine concretamente concesso a detto importatore gli abbia consentito di essere utilmente ascoltato dalle autorità doganali.
Peraltro, l’Alta Corte europea aveva ritenuto che il giudice nazionale deve inoltre verificare se, in considerazione del periodo intercorso tra il momento in cui l’amministrazione interessata ha ricevuto le osservazioni dell’importatore e la data in cui ha adottato la sua decisione, sia possibile o meno ritenere che essa abbia tenuto adeguatamente conto delle osservazioni che le sono state trasmesse.
 
La sentenza che si annota, in tal modo, conferma la propria precedente giurisprudenza espressasi nelle sentenze nn. 2437 e 2438 del 2007 (confermate dalla successive decisioni nn. 5509, 7171 e 10964 del 2007, nn. 863, 9912 e 11122 del 2008, n. 4017/2010, n. 16874/2009).
 
a cura di “Giurisprudenza delle Imposte” edita da Assonime
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